Affido. “Ho la fortuna di guardare avanti. E non tutti ce l’hanno”

La storia di un ragazzo di 23 anni che ha sperimentato l’affidamento famigliare. Che non è il male assoluto. Anzi

L’affido? Qualcuno, dopo gli scandali, ritiene ormai che sia una sorta di male assoluto. Ma, per molti bambini, è un’opportunità di uscire da un limbo dal quale difficilmente potrebbero emergere da soli. A spiegarlo in maniera efficace è un pensiero pubblicato dal magazine online The Vision. Il protagonista è un ragazzo figlio di genitori sordomuti, che non erano in grado di assicurargli il sostegno necessario alla crescita.

“Da piccolo – racconta il ragazzo – ero manesco con gli altri bambini e non volevo stare a scuola. A volte scappavo, uscivo, girovagavo per strada. Avevo uno stato d’animo teso e tanta adrenalina addosso e questo mi portava ad allontanarmi e mettermi in pericolo. A casa non ero sereno. I miei genitori naturali, purtroppo, sono nati entrambi sordomuti e per parlare con me e mio fratello utilizzavano quello che comunemente si chiama Lis, la lingua dei segni. Io non la conoscevo, nessuno me l’aveva insegnata. Non la conosco tutt’ora, a dire il vero. Per comunicare avevamo trovato un modo tutto nostro e vivevamo in un mondo in cui ognuno di noi, bene o male, si capiva. Però non era abbastanza. Mia mamma, a un certo punto, ha chiesto aiuto. La situazione era diventata troppo complessa e lei non era in grado di gestirla, mentre mio padre è sempre stato molto assente. Io ero solo un bambino, non capivo cosa stesse succedendo. Dentro di me, però, sapevo che c’era qualcosa che non andava”.

“Ricordo – prosegue nel racconto – che un giorno sono arrivati gli assistenti sociali a casa nostra. Mi hanno chiesto di salire sull’autobus e io l’ho fatto. Guardando fuori dal finestrino, ho salutato i miei nonni con la manina, ma ancora non avevo capito dove mi stavano portando. Avevo 4 o 5 anni la prima volta che sono stato allontanato dai miei genitori naturali e non è stato facile. Insieme a mio fratello sono stato portato in una comunità. La vita lì era strana. Da un lato era bello, perché ho avuto la fortuna di incontrare degli educatori che mi seguivano costantemente. Nella testa di un ragazzino è possibile che questo diventi un problema e che inizi a ribellarsi e rifiutare gli insegnamenti o le raccomandazioni. Per me non è stato così: è scattato qualcosa in me, non so bene cosa, ma ho capito che dovevo ascoltare. Nonostante fossi un casinista sempre con la testa tra le nuvole, mi son detto “Credi in quello che ti dicono”. Questo mi ha salvato. Per mio fratello non è stato così”.

Si, perché “una volta compiuta la maggiore età lui ha deciso di trasferirsi di nuovo a casa di mia mamma. È stato uno sbaglio enorme. Lei non riusciva a seguirlo e nella mia famiglia non c’è mai stata una stabilità economica o relazionale sufficiente. Così mio fratello ha preso una brutta strada, quella della droga, che l’ha portato dove è oggi, in una comunità psichiatrica dove è in cura per un problema cognitivo aggravato dalle sostanze chimiche”.

Per il protagonista di questa storia, invece, la vita è proseguita in una comunità, tra il bullismo dei compagni e mille difficoltà. “Poi – continua il protagonista – ho conosciuto S. e A., i miei genitori affidatari. Loro non possono avere figli e quindi hanno deciso di prendere un ragazzo in affidamento. Li ho incontrati per la prima volta in comunità, avevo 9 anni. Un giorno gli educatori mi hanno preso da parte e mi hanno detto che sarebbe venuto qualcuno a trovarmi. Io ero molto curioso e continuavo a chiedere “Chi sono?” Dopo la prima volta sono venuti una seconda, una terza, una quarta e così via. Mi venivano a trovare a mi portavano in giro per la mia città, nei parchi per una passeggiata, nei musei o a mangiare un gelato. Sapevo che volevano prendere in affido un bambino o una bambina. Sapevo che la scelta sarebbe ricaduta su di me o su V., un’altra ragazza della comunità. Ricordo che inizialmente erano più propensi a prendere lei, almeno così mi sembrava. Una sera, però, eravamo seduti per cena e io, quasi per ridere, ho chiesto a uno degli educatori ‘Posso andare a vivere con loro?’. Loro mi hanno dato il telefono in mano e mi hanno detto ‘Dai, chiamali’. E così ho fatto, gliel’ho detto e loro mi hanno risposto che avevano già questa intenzione. Così mi sono trasferito da loro”.

Di anni, da allora, ne sono trascorsi parecchi. “Ora ho 23 anni, ho finito la scuola alberghiera e lavorato in Italia e all’estero in ristoranti e alberghi di lusso. Sono anche membro di un’associazione che si occupa di aiutare i ragazzi che hanno vissuto esperienze fuori famiglia, di adozione o affido. (…) Mio papà solo ora, con il passare degli anni, sembra che si stia accorgendo di avere un figlio in una comunità psichiatrica e un altro che sta diventando grande. Lui si è distaccato per scelta e si è sempre fatto vivo solo quando gli faceva comodo. Mia mamma la vado a trovare ogni tanto. Lei sta bene, è seguita dagli assistenti sociali perché non riesce ad auto gestirsi. Può sembrare banale, ma anche prepararsi un pranzo o fare la spesa è un’impresa per lei. Per mia scelta non ho rotto i rapporti con la mia famiglia di origine. Ho la fortuna di aver trovato due persone che mi hanno cambiato la vita, ma non mi devo dimenticare che esiste l’altra faccia della medaglia. Mio padre, mia madre, mio fratello resteranno per sempre mio padre, mia madre, mio fratello. Però mi sono anche emancipato, sto tracciando una mia strada e non tornerò mai indietro. Ho la fortuna di poter guardare avanti e non tutti ce l’hanno”.