Beato è colui che, nella fame, tiene viva la fame di Dio

Nella VI domenica del tempo ordinario, il commento del teologo Don Maurizio Chiodi prende spunto dalla Prima Lettura Dal libro del profeta Geremia Ger 17,5-8, dalla Seconda Lettura Dalla Prima lettera di San Paolo apostolo ai Corinzi 1 Cor 15,12.16-20 e dal Vangelo secondo Luca Lc 6,17.20-26

Oggi in tutta la nostra diocesi si celebra la giornata del Seminario. È un’occasione preziosa per tutte le nostre comunità, soprattutto per pregare e riflettere ed anche per risvegliare la nostra attenzione su questo aspetto della nostra Chiesa così importante e delicato.

Tutti sappiamo che – eccetto l’Africa e l’Asia – in ogni parte del mondo c’è una crisi forte: sono sempre meno i giovani che decidono di intraprendere la via del sacerdozio. Questo sta succedendo sempre più anche nella nostra diocesi che, fino a qualche anno fa, faceva eccezione in un panorama diffuso di difficoltà. Anche quest’anno avremo un solo prete ordinato. I numeri nel nostro seminario diocesano sono (quasi) crollati, nel giro di pochissimi anni.

Che cosa sta succedendo?

Io credo che questa crisi sia un sintomo sotto il quale si nascondono situazioni e ‘cause’ molto diverse tra loro. Certo, se i preti diminuiscono è anche perché noi, preti, spesso non diamo una buona testimonianza della fede nel ministero. Spesso noi preti diamo ‘scandalo’ con la nostra vita, in tanti modi, purtroppo. Siamo dunque interpellati a convertirci, come ogni cristiano, alla bellezza del Vangelo.

 

Anche le nostre comunità sono in difficoltà crescente e la nostra società sta profondamente cambiando, ‘secolarizzandosi’.  L’aspirazione al benessere, pur tra molte difficoltà e ostacoli, sembra l’imperativo fondamentale degli uomini e delle donne di oggi.

La fede viene spesso riservata a qualche persona ‘devota’, magari – così si dice – nostalgica di un tempo passato e incapace di stare ai tempi!

Certo, è un grave rischio, anche oggi, di ‘rinchiudere ‘ la nostra fede, limitandola negli spazi ristretti delle chiese, del culto, della preghiera. Questo naturalmente è fondamentale, ma non può bastare. Celebrare il culto, massimamente l’Eucarestia, pregare sono aspetti fondamentali, essenziali e irrinunciabili della fede, ma questa non può non diffondersi nella vita, nelle relazioni fraterne dentro le nostre comunità, in una testimonianza di bene che deve ‘colpire’ chi credente non è.

È una sfida continua. E lo è anche per noi oggi. La fede cristiana è un tesoro prezioso che abbiamo ricevuto in dono, per ridonarlo!

La Parola di Dio che abbiamo proclamato in questa domenica è un richiamo prezioso per la nostra fede. L’apostolo Paolo, nella seconda lettura, ci annuncia il centro del Vangelo: «se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede».  E noi non avremmo più alcuna ragione di speranza.

Ecco, questo è il succo della nostra fede: a motivo di Gesù, morto e risorto, noi crediamo che la morte non è l’ultima parola della nostra vita. La morte è una ‘soglia’, che chiude i nostri giorni, ma ci apre ad una vita di speranza, alla comunione con il Signore Gesù, nella luce di Dio.

Noi cristiani, nonostante tutto, nonostante le difficoltà, le fatiche, nonostante le opposizioni e le resistenze, nonostante le nostre infedeltà, ambiguità e incertezze, non possiamo mai perdere la speranza.

La ‘fonte’ di questa nostra speranza è nel Signore, non in noi stessi, nelle nostre forze, nel nostro impegno. Certo, questo non può mancare, ma è sempre la risposta ad un dono di cui non siamo noi la sorgente!

È proprio questo che ci ricorda la prima lettura, dal profeta Geremia.  Con belle parole molto forti, il profeta pronuncia una maledizione e una benedizione: «Maledetto l’uomo che confida nell’uomo» … «Benedetto l’uomo che confida nel Signore». Attenzione, però, con queste parole Geremia non vuole mettere nessuna opposizione tra Dio e l’uomo, come se fosse benedetto chi confida nel Signore e maledetto chi ha relazioni di fiducia negli altri.

Il profeta non ci chiede affatto di diventare sospettosi e seminatori di rancore, di discordie, di divisioni. «Maledetto», nelle parole di Geremia, è chi «pone nella carne il suo sostegne cioè chi dimentica il Signore, puntando tutto su di sé, sulle proprie forze e non fidandosi nemmeno degli altri. «Maledetto» lo è non perché Dio si scateni contro di lui per punirlo, ma perché lui stesso, in questo modo, si condanna ad una vita infelice, una vita di isolamento, una vita ‘povera’, dura e ingrata.

Chi, invece, «confida nel Signore», dice il profeta, avrà una vita ’benedetta’. Geremia propone un’immagine molto bella: chi si fida di Dio sarà «come un albero piantato lungo un corso d’acqua», le sue radici si stenderanno «verso la corrente» e così non soffrirà la siccità «quando viene il caldo», le sue foglie saranno sempre verdi, e non cesserà «di produrre frutti» nemmeno nel tempo della siccità.

Ecco, chi ha fede sa ‘resistere’, non perché lui è un testardo o un ottimista staccato dalla realtà, ma perché attinge la sua fede e la sua speranza nella grazia del Signore.

In fondo, questo è lo splendido, meraviglioso frutto delle beatitudini, nel Vangelo di Luca.

Queste sono un po’ meno famose di quelle di Matteo. Sono più brevi. Gesù, dice l’evangelista, le avrebbe pronunciate non dalla ‘montagna’, ma «in un luogo pianeggiante», già in cammino verso Gerusalemme.

Il Vangelo di Luca ha un altro ‘disegno narrativo’, rispetto a quello di Matteo, e quindi immagina una ‘cornice’ diversa per queste meravigliose parole di Gesù.

Ancora, le beatitudini si accompagnano a dei ‘guai’, a una ‘minaccia’, un ammonimento, molto forte. C’è qui una decisa contrapposizione tra il ‘beati voi’ e il ‘guai a voi’, un po’ come Geremia che opponeva il ‘benedetto’ a il ‘maledetto’.

Questa parola richiede a noi una decisione forte.  Da che parte vogliamo stare: dalla parte di ‘beati voi’ o dalla parte del ‘guai a voi’?

Ma che cosa significa scegliere tra queste due alternative? Chi, tra di noi, chi, tra gli uomini, non vorrebbe essere beato, felice? Chi è beato? Questa è la domanda fondamentale.

Le parole di Gesù ci annunciano che ‘beato’ non è chi confida in se stesso, nelle sue ricchezze, nei beni che possiede. Questi possono svanire da un momento all’altro e, di fatto, sarà così per tutti, nel momento della nostra morte.

Beato è colui che, nella povertà o nella ricchezza, sa gustare ciò che ha come ‘segno’ rivelatore di una bontà, di una grazia che è più grande dei suoi beni e che i suoi ‘beni’ gli rivelano.

Beato non è colui che è ‘sazio’ di tutto ciò che possiede, perché si illuderebbe di bastare a se stesso.

Beato è colui che, nella fame, tiene viva la fame di Dio.

Beato è colui che, quando è sazio, non dimentica la fame della Parola di Dio. Beato non è chi insegue, nella sua vita, il riso, nascondendo a sé il dolore e il pianto.

Beato è, invece, chi nel pianto, il suo e degli altri, invoca e attende un dono, una grazia, una presenza che lo sollevi, nel dolore e nella gioia, verso una speranza di cui non è lui l’origine.

Beato non è chi insegue la ‘buona fama’, perché tutti gli altri dicano sempre bene di lui. Vivrebbe schiavo del suo narcisismo.

È beato chi spende la sua vita «a causa del Figlio dell’uomo», fidandosi e fondandosi su Gesù, la sua Parola, la sua grazia, la sua Presenza.  

Questo dovrebbe essere un prete oggi: un uomo che ‘perde’ la sua vita per Gesù, che ha dato la sua vita per lui.

Un uomo che, così, ‘perde’ la sua vita perché tutti gli altri, suoi fratelli, possano anch’essi ‘perdere’ la propria vita per Gesù, che ha dato la sua per loro.

Allora diventeremo tutti ‘beati’.

Saremo la comunità delle beatitudini!