Bucha come Srebrenica: quel senso di impotenza di fronte all’orrore sempre uguale dell’uomo

Le terribili immagini dei civili ammazzati a Bucha, in Ucraina, riportano alla mente i corpi massacrati a Srebrenica, in Bosnia, in un parallelismo che racconta del male da cui l’uomo sembra non imparare mai

Bucha come Srebrenica. È questo il parallelismo che più si sente ripetere da quando le terribili immagini dei cadaveri giustiziati e abbandonati per le strade della cittadina ucraina nei dintorni di Kiev hanno iniziato a circolare in rete e sui giornali. Un parallelismo che è venuto in mente a tanti, prima di essere “ufficializzato” dal ministro della difesa ucraino che a corredo della pubblicazione di un durissimo video su Twitter ha esplicitamente parlato di “nuova Srebrenica”.
Il riferimento è a ciò che avvenne nei giorni tra l’11 e il 19 luglio del 1995, allorché i soldati serbi massacrarono circa 7 – 8mila uomini e ragazzi, per la maggior parte musulmani, durante la guerra in Bosnia.

Bucha e Srebrenica, “sorelle” nell’orrore

Si tratta di un paragone sostanzialmente “emotivo”, figlio dell’orrore della scoperta delle fosse comuni con i corpi senza nome gettati uno sull’altro; dello strazio di cadaveri inermi abbandonati lungo le strade; dello scempio di donne stuprate e ammazzate, anziani rinchiusi nelle cantine a morire di fame e sete, bambini bruciati… Un orrore tremendamente simile che annulla le distanze e le differenze di contesto tra le due guerre; sperando che differenti siano anche i numeri dei morti che per il momento, a Bucha, non raggiungono ancora le migliaia di Srebrenica.
Ma, oggi, non è il tempo delle analisi geopolitiche o delle riflessioni storiografiche; davanti a un orrore di questa portata c’è solo la rabbia, lo sdegno e quel senso di impotenza che porta a porsi, ancora una volta, la stessa domanda: “L’uomo imparerà mai, davvero, dal suo passato?”. È la stessa domanda che ci si è fatti a Bucha come a Srebrenica, ma anche a Grozny come ad Aleppo, a My Lai come a Guernica … E via così, in una sfilata di sgomento che, con mille diversità e intensità, ha in comune il filo rosso della morte innocente.

Il male

Il parallelo, allora, più che con Srebrenica, avrebbe senso farlo con quell’aula di tribunale che nel 1961, in Israele, ospitò il processo ad Adolf Eichmann. Quel processo raccontato da Hannah Arendt per il New Yorker e, poi, nel libro La banalità del male, dove la cattiveria astratta e la malvagità indicibile ha preso le sembianze di un uomo come tanti. Non un nemico del genere umano; non un dittatore additato per sempre dalla parte sbagliata della storia, ma un uomo incapace di dare alla propria coscienza una dimensione etica; incapace di elaborare il significato delle proprie azioni che vada oltre la mera, meccanicistica, azione in sé.
Perché al di là delle decisioni dei “potenti”, degli accordi firmati o stracciati nelle stanze del potere, la morte arriva nelle strade delle città per mano degli uomini, “banali” nel loro perpetrare il male tanto a Srebrenica quando a Bucha. E se, da un lato, questo risvolto rende il tutto ancora più amaro e credule, dall’altro lascia aperto uno spiraglio di speranza. Che dipende, sempre e soltanto, dall’uomo che ciascuno deciderà di essere. In ogni momento e circostanza della sua esperienza umana.

Francesco Elli

(foto in apertura: Dire.it)