Chi ascolta una chiamata è come se vedesse l’invisibile

Nella IV domenica di Pasqua la riflessione del teologo Don Chiodi prende spunto dalla lettura della Prima Lettura Dagli Atti degli Apostoli At 13,14.43-52, dalla Seconda Lettura Dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo Ap 7,9.14b-17 e  dal Vangelo Dal Vangelo secondo Giovanni Gv 10,27-30

Oggi, quarta domenica di Pasqua, per tradizione, nelle chiese in tutto il mondo si celebra la giornata di preghiera per le vocazioni.
A noi viene subito in mente – ma forse non a tutti! – che le ‘vocazioni’ sono quelle alla vita religiosa e alla vita presbiterale. E, effettivamente per le nostre chiese di occidente, questa sta diventando un’evidenza assordante. C’è un crollo, verticale, nelle ‘vocazioni’ presbiterali, ad esempio, anche nella nostra diocesi. Il nostro seminario si sta svuotando, nel giro di pochissimi anni. Ma in Italia è così da parecchi anni.
Però, vedete, è molto riduttivo, anzi è sbagliato, pensare che le ‘vocazioni’ siano solo quelle religiose, consacrate, o quelle dei preti. In realtà tutta la vita di un cristiano è ‘vocazione’. E se pochi scelgono la vocazione sacerdotale o religiosa è (anche) perché sempre meno cristiani percepiscono la propria vita di credenti come una vocazione.

Lo slogan di questa giornata mondiale di preghiera è: ‘come se vedessimo l’invisibile’, che è una frase tratta dall’enciclica ‘Evangelii Gaudium’ di Papa Francesco. Chi ascolta una chiamata è come se vedesse l’invisibile. Colui che non può essere visto, Dio, può però essere udito, ascoltato.
In questa giornata siamo invitati a pregare perché molti giovani e tutti i cristiani possano ‘vedere Dio’ ascoltando la sua voce, la sua chiamata, la sua Parola!

Nella seconda lettura, dall’Apocalisse, c’è un’immagine grandiosa: «una moltitudine immensa» composta di persone «di ogni nazione, … popolo e lingua» sta «in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello». Sono tutti «avvolti in vesti candide» che sono state lavate e purificate «nel sangue dell’Agnello».
Questo agnello è il loro pastore. Lui «li guiderà alle fonti delle acque della vita».
È bello questo paradosso: che l’Agnello è pastore!
Dunque il pastore è uno che dà la vita per le sue pecore, come un agnello mansueto. Il pastore è ‘a servizio’ della vita delle sue pecore. Non le domina, per servirsi di loro. Al contrario, si fa loro servo, lui, per amore. Per questo le sue pecore lo seguono, perché si possono fidare di lui!

Questa immagine potente dell’Apocalisse anticipa il Vangelo di Giovanni, oggi molto breve, perché è solo una piccola parte del famoso discorso del buon pastore, nel capitolo X di Giovanni.
È Gesù che parla. È l’Agnello che parla di sé come del pastore.
Le parole del pastore mettono bene in luce la reciprocità tra di lui e le sue pecore. Queste infatti «ascoltano» la sua «voce», ma la ascoltano perché lui le conosce e il loro ascolto prende forma, si fa coerente nel seguirlo, nell’andargli dietro. È forte la progressione di questi tre verbi: le pecore ascoltano, il pastore le conosce, loro lo seguono.
Notate bene che l’iniziativa è sua, del pastore, è di Gesù. Le ‘pecore’, cioè noi, ascoltiamo perché è Lui che parla e la sua è una voce non indifferente, non è una voce qualunque, è la voce di uno che ci conosce e ci ama.

All’origine di ogni chiamata, la voce, c’è la conoscenza amorosa che il Signore ha di ciascuno di noi. Se noi percepiamo la nostra vita di cristiani come una chiamata è solo perché abbiamo fatto l’esperienza di essere stati amati per grazia da Lui! Se, invece, non ascoltiamo la voce di questo pastore è perché non abbiamo l’esperienza viva di aver ricevuto da Lui la sovrabbondanza di un amore gratuito!
Poi, è bello notare che il primo ‘atto’ di chi è chiamato è l’ascolto. La ‘vocazione’ non è anzitutto un progetto nostro, non è un’invenzione nostra, è la chiamata di un altro. A noi è chiesto, anzitutto, di ascoltare. La nostra scelta, ogni scelta della vita del cristiano, nasce sempre come una risposta.

E dove possiamo ascoltare questa voce?
Non dobbiamo pensare, ingenuamente, che la ‘voce’ di Dio la possiamo ascoltare distintamente, quasi come se fosse una voce tra le altre, come se qualcuno avesse avuto la fortuna di sentire questa voce … e così l’avrebbe seguito.
La ‘voce’ di Dio risuona nella storia, attraverso gli eventi, le relazioni, le persone che incontriamo, la Parola di Dio che ascoltiamo e che risuona sempre nella forma di una parola umana. Ascoltare la voce del Signore, che ci parla nelle ‘cose’ del mondo, significa imparare a distinguere che cosa Lui ci chiede in tutto ciò che accade.
Così noi impariamo a discernere’ la volontà di Dio, ciò che il Signore ci chiede, la sua chiamata.

La volontà di Dio, ad esempio, non è che accada un terremoto, o che mi rubino l’automobile o che il collega d’ufficio sia una persona particolarmente antipatica. La volontà di Dio è la sua chiamata. La volontà di Dio è che io, in quella situazione, risponda all’amore gratuito che Lui dà per me e per tutti.
Così, nel terremoto la chiamata è a soccorrere, in molti modi. Se mi rubano l’automobile è chiamata non lasciarmi abbattere e fare di tutto per ritrovarla oppure per ripartire. Davanti ad una persona antipatica, la chiamata di Dio è trovare i modi perché questa relazione non sia presa nella trappola dei pregiudizi, delle incomprensioni, della sordità all’altro.
Così, la ‘voce’ di Dio risuona nella storia.

La sua chiamata è la strada che la Parola di Dio, in Gesù, ci indica nelle situazioni concrete della vita. Quindi la ‘chiamata’ di Dio non ci allontana dalla storia, ma si incarna nella vita. Ci apre delle prospettive belle di cammino, di impegno. All’origine della chiamata c’è la promessa della grazia!
A questo siamo chiamati tutti: a seguire Gesù, nel cammino della vita. Seguirlo significa ascoltare ogni giorno la sua Parola e la sua voce negli eventi della vita. Dobbiamo affinare l’orecchio della fede, per ascoltare e per seguire.

La promessa di Gesù è molto chiara: «Io do loro la vita eterna». L’Apocalisse diceva che «l’Agnello» ci guida «alle fonti delle acque della vita». E aggiungeva: «E Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi».
Ecco che cosa significa arrivare «alle fonti delle acque della vita»: significa che il Signore ci promette una felicità piena, dove sarà tolto ogni dolore, ogni fatica, ogni malattia, la morte. I nostri volti non conosceranno più le lacrime.

Gesù sottolinea, nel Vangelo, che questa promessa è fedele. Egli dice, delle pecore: «nessuno le strapperà dalla mia mano». La sua mano, di grazia, è potente. La sua promessa è fedele. Gesù e il Padre sono «una cosa sola». La mano di Gesù è la mano del Padre. Noi siamo in queste mani.
Abbiamo dunque fiducia, anche quando siamo nelle prove, nelle fatiche, nelle necessità più gravi.

La prima lettura, dagli Atti del Apostoli, si conclude proprio così: «i discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo». Il ‘segno’ dello Spirito, che è in noi, è la gioia. Qualunque cosa ci accada nella vita! In qualunque situazione, in qualunque difficoltà.
Gli Atti dicono che Paolo e Barnaba, in quella città dell’Asia Minore, «Antiòchia in Pisìdia», avevano annunciato «la Parola di Dio» e avevano invitato tutti a «perseverare nella grazia di Dio». Ma il successo della loro predicazione aveva suscitato la gelosia, le invidie, le persecuzioni, prima da parte dei Giudei e poi da parte di tutti.
Così, alla fine, Paolo e Barnaba vennero addirittura scacciati da quella città.
Eppure, loro e tutti i discepoli, «erano pieni di gioia e di Spirito Santo»!

Ecco, la gioia cristiana non è il sentimento ingenuo di chi non vuole i problemi, non è la vita fortunata di uno a cui vanno bene tutte le cose che fa. Questa «gioia’ è frutto dello Spirito, che ci assicura che noi siamo nelle mani di Dio, le mani di Gesù e le mani del Padre.

Nessuno ci può strappare da queste mani di grazia. Nessuno può toglierci la promessa di questa comunione con Lui.

Perciò anche noi siamo nella gioia. Fino a quando giungeremo pienamente «alle fonti delle acque della vita»!

don Maurizio