Il giorno della memoria. Le “pietre di inciampo” di Roma per non dimenticare

Camminando per i marciapiedi della capitale, ti possono capitare sotto i piedi e “pungolarti” come un sasso entrato in una scarpa. Perché un insulto urlato a un ragazzino di 12 anni non può finire con un’alzata di spalle.

“Ebreo di m…, devi morire nel forno”.
In questi casi non si possono fare giri di parole: dritti al cuore del problema, usando i termini come sono stati pronunciati. Almeno, per quanto riporta un virgolettato del Corriere della Sera.
Parole che non arrivano da decenni lontani, ma sono terribilmente presenti: anno 2022. Luogo: Venturina Terme, in provincia di Livorno. A dirle, pare, due ragazzine di 13 e 14 anni, che probabilmente non sapevano che l’indomani sarebbe stato il Giorno delle Memoria. Non che la cosa cambi il fatto in sé, ma suona come un monito che aiuta a non alzare le spalle dicendo: “Sono ‘ragazzate’ che possono capitare”.

L’importanza del Giorno della Memoria

Allora, per certi versi, per fortuna che tutto questo è successo alla vigilia del giorno della memoria. Un giorno voluto proprio per sottolineare l’importanza di non dimenticare, perché, come diceva Hanna Arendt: “I vuoti di oblio non esistono. Nessuna cosa umana può essere cancellata completamente e al mondo c’è troppa gente perché certi fatti non si risappiano: qualcuno resterà sempre in vita per raccontare. E perciò nulla può mai essere praticamente inutile, almeno non a lunga scadenza”. Con buona pace di chi pensa che certe ricorrenze non servano a nulla.
Serve, “fare memoria”. Serve per “diseducare all’odio e reagire all’ingiustizia” come ha detto Edith Bruck. E serve parlarne a tutti, soprattutto alle nuove generazioni per le quali la guerra, per fortuna, è un pensiero molto lontano e l’Olocausto, in fondo, rischia di diventare un capitolo del libro di storia alla pari di quello della caduta del Sacro Romano Impero: è successo, in qualche momento della linea infinita del tempo… ma speriamo non me lo chieda nell’interrogazione.
E allora ben vengano i film, i libri, le testimonianze di chi ancora può raccontare l’orrore. Ben vengano le “pietre d’inciampo”, quei piccoli blocchi quadrati di pietra, ricoperte in ottone, che vengono posti davanti alle porte delle case nelle quali ebbero l’ultima residenza i deportati nei campi di sterminio, ricordando nome, anno di nascita, giorno e luogo di deportazione e data della morte. Pietre che ti possono capitare sotto i piedi sui marciapiedi di Roma e, come un sasso entrato in una scarpa, pungolarti per rivolgere un pensiero a quello che è stato e che nessuna legge scritta potrà mai assicurarci non tornerà più.

I bambini testimoni della Shoah

Non si possono alzare le spalle di fronte a episodi come quello di Venturina Terme; non si possono derubricate a “bravate” di chi non sapeva quello che stava dicendo. Perché il problema, molto più dell’azione in sé, sta proprio in quel possibile “non sapere quello che si dice”. Invece, le parole sono le prime armi con le quali si colpisce, più degli sputi lavati dal giaccone o dei pugni guariti dopo qualche livido. Sono le parole che devono essere insegnate anche ai bambini, che, d’altra parte, all’indomani dell’Olocausto furono proprio tra i primi a trovarle, le parole, per raccontare quello che i più adulti ancora ritenevano indicibile.
Raccontare, insegnare e non dare nulla per scontato, mai. Perché, come scrive Jonathan Littell nel terribile e controverso romanzo Le Benevole (che racconta gli orrori del nazismo per bocca di un ex ufficiale dell’SS chi quegli atti li compiva): “Se siete nati in un paese o in un epoca in cui non solo nessuno viene a uccidervi la moglie o i figli, ma nessuno viene nemmeno a chiedervi di uccidere la moglie e i figli degli altri, ringraziate Dio e andate in pace. Ma tenete sempre a mente questa considerazione: forse avete avuto più fortuna di me, ma non siete migliori. Perché se avete l’arroganza di pensarlo, qui incomincia il pericolo”.