Milano. “Se il Cam chiude, i miei figli dove andranno?” Le ansie di una mamma che forse non conosce l’affido familiare

cam milano“Nei mesi scorsi ho appreso con tanta amarezza che il vostro centro qualificato chiudeva. Mi sono subito preoccupata per i miei figli. Dove andranno? Inizia così la lettera che la mamma di alcuni bambini attualmente ospitati dal Centro Assistenza Minori di Milano ha scritto all’inizio di novembre ai vertici della struttura. Le sue parole sono state riprese e pubblicate dal quotidiano milanese “Il Giorno” che ha dato voce alle preoccupazioni di una mamma a cui il Tribunale per i minorenni ha temporaneamente allontanato i figli. Preoccupazioni assolutamente giustificate, perché il Cam di Milano è al centro di un rimpallo di responsabilità tra Regione Lombardia, Città Metropolitana e Comune di Milano per la gestione di un servizio di accoglienza per minori fuori famiglia precedentemente a carico della Provincia, ormai soppressa. Ma le ansie di questa mamma sarebbero superabili se, anziché continuare a discutere su come portare avanti il Cam, le istituzioni cercassero di assicurare ai 19 piccoli ospiti del Centro un’accoglienza più rispondente alle reali esigenze affettive dei minori. Esigenze che possono trovare un’adeguata risposta solo in famiglia, come hanno scritto Amici dei Bambini e altre 3 associazioni in un comunicato congiunto.

Nella sua lettera la donna dice di trovarsi bene con tutti gli operatori della struttura, di ringraziarli per tutto ciò che fanno per i suoi figli e di essere dalla loro parte.

“Voi tutti avete dato tranquillità – scrive la mamma -, equilibrio, sicurezza, attenzioni, coccole e supporto psicologico” ai suoi figli. Tutte cose che senza dubbio il personale del Cam garantisce ogni giorno ai bambini di cui si prende cura. Ma lo fa in modo professionale, secondo i normali turni di lavoro e le proprie competenze: quelle della psicologa, dell’assistente sociale, della pediatra, dell’inserviente, delle educatrici. Le famiglie però potrebbero offrire molto di più: potrebbero assicurare ai bambini allontanati dalle famiglie di origine di poter continuare a sentirsi figli, di essere amati e accompagnati come tali durante una fase difficile della loro vita. In fondo ne è cosciente anche l’autrice della lettera quando, ringraziando le educatrici, dice che “sono mamme (magari non nella realtà, ma si comportano come tali)”. Fare COME le mamme, a turno, non sarà mai come ESSERE mamme “nella realtà”.

Ecco la risposta alla domanda di questa mamma: “dove andranno?” In famiglia. Potrebbero andare in affidamento familiare se, invece di spendere risorse per mantenere in vita il Cam, le istituzioni le mettessero a disposizione per sostenere, in collaborazione con le associazioni, le famiglie affidatarie. Anche perché l’impegno necessario sarebbe di certo molto più basso di quanto prospettato per la sopravvivenza del Cam, che solitamente costa 3,5 milioni di euro all’anno.

Anche un’altra preoccupazione dell’autrice della lettera non sussisterebbe più se si desse impulso all’affido. “Tutto lo staff che fine doveva fare?”, si chiede la donna. Nessuno resterebbe senza lavoro: la professionalità di questi operatori potrebbe più correttamente essere convertita in altri compiti, ad esempio quale sostegno al compito educativo alle famiglie.

Resta il fatto che il Cam è un agglomerato di comunità educative concentrate in un solo complesso abitativo. Insomma un istituto camuffato da comunità educativa. E gli istituti in Italia non sono più permessi dalla legge 149/2001 che ne ha previsto la chiusura entro la fine del 2006. Tra l’altro, la stessa autrice della lettera ricorda come abbia avuto a che fare, in passato, “con altre comunità, per le quali non spenderei nessuna parola positiva”. Tanto più che il Cam, attualmente, ospita minori da 0 a 6 anni: una fascia di età, a cui forse appartengono anche i figli della donna, che non dovrebbe neppure trovarsi in comunità educativa. Per bambini così piccoli, infatti, la legge auspica un’accoglienza in affido familiare o in comunità di tipo familiare.

 

Fonte: Il Giorno