Ma il non profit ha veramente bisogno di influencer?

Dopo il caso Ferragni-Balocco, l’esperto di comunicazione non profit, Luca Palmas, mette in discussione il ruolo degli influencer come promotori di cause sociali

Alla luce della recente polemica sul caso Ferragni-Balocco, Luca Palmas, esperto di comunicazione non profit, riflette sul ruolo. all’interno dei social network, di questi personaggi famosi che spesso vengono usati come testimonial o promotori di cause sociali.
Nell’articolo, pubblicato da “Vita.it”, Palmas sostiene che il non profit non ha bisogno di influencer. Il terzo settore deve basare la sua comunicazione su contenuti di valore, che creino fiducia e coinvolgimento nel lungo periodo, e non su relazioni frettolose e superficiali, che si basano sul principio del “consiglio a pagamento”.
Per supportare la sua tesi, Palmas cita il guru del marketing Seth Godin, che afferma che “il futuro degli influencer appartiene già al passato”, perché nella maggior parte dei casi non sono veri influencer, ma hacker egoriferiti legati alle pubbliche relazioni, che non generano né attenzione né fiducia.

Testimonial o influencer?

Palmas distingue tra il testimonial, che è un personaggio noto che si fa garante della qualità di un prodotto, e l’influencer, che è un personaggio di successo, popolare nei social network, che è in grado di influire sulle scelte di un determinato pubblico.
L’influencer è molto più vicino ai suoi follower, con cui condivide aspetti importanti della sua vita, ponendosi come un amico. Questo aspetto di vicinanza amicale, però, condiziona le scelte e le azioni del pubblico per ottenere un ritorno commerciale basato su like e sponsorizzazioni.

I tre motivi

Palmas elenca tre motivi per cui non serve agganciare un nome famoso a un’organizzazione non profit: uno logico, uno etico e uno educativo.
Il motivo logico è che non c’è nessuna correlazione tra la competenza di un influencer nel suo settore e la sua capacità di suggerire qualcosa di utile ed efficace per una causa sociale. Palmas critica l’idea dell’ipse dixit, ossia dell’autorità indiscussa, che non ha senso quando si tratta di scegliere a chi donare.
Il motivo etico è che un’organizzazione non profit dovrebbe usare la notorietà di un influencer solo se condivide i suoi valori, e non per ingannare il suo pubblico con un “consiglio a pagamento o quantomeno interessato”. Palmas si chiede se sia vantaggioso arrivare a un vasto pubblico che magari non è vicino alle nostre cause, in maniera leggermente fraudolenta, per trovare “subito” quei pochi che invece forse potrebbero supportarci.
Il motivo educativo è che delegare le nostre scelte a un influencer, per pigrizia o scarsa voglia, significa deresponsabilizzare la nostra scelta e scaricarla di significati morali, riducendola a una moda o a un’imitazione. Palmas cita il caso della Ferragni e del “suo” pandoro, che è stato sanzionato dall’Antitrust per pubblicità ingannevole.

[Fonte: “Vita.it”]