Rilanciare l’Adozione Internazionale si può. Basterebbe volerlo!

Intervista del presidente di Ai.Bi. Marco Griffini ad Avvenire, per spiegare quanti siano i bambini abbandonati nel mondo, quali i motivi del calo delle Adozioni Internazionali e come si potrebbero rilanciare per il bene di tutti

Chi legge abitualmente AiBiNews ormai conosce a memoria i “numeri” dell’Adozione Internazionale. Non per questo, però, eviteremo di tornare ancora una volta a ripeterli. Perché il dramma è concreto e reale, e perché l’urgenza di rilanciare questo istituto è fondamentale tanto per la nostra società quando per i milioni di bambini abbandonati che ci sono nel mondo.
I numeri, infatti, sono di quella portata, come ha nuovamente spiegato Marco Griffini, Presidente e fondatore di Ai.Bi. – Amici dei Bambini – ETS, in una bella intervista pubblicata su Avvenire a firma del giornalista Luciano Moia, sempre molto attendo a questi temi.

I bambini abbandonati nel mondo sono centinaia di milioni

Griffini, davanti ai famosi “numeri” che indicano come nell’arco di 15 anni le adozioni internazionali in Italia siano scese dal picco storico di oltre 4 mila nel 2010 al minimo storico di 478 nel 2023, rimane comunque sorprendentemente ottimista.
La prima ragione di questo ottimismo, come spiega nell’intervista, arriva proprio dai numeri. In questo caso quelli che riguarda i bambini orfani che si sono nel mondo: “150 milioni almeno”.
Quel “almeno” dipende dal fatto che l’ultima stima effettuata dall’Unicef è del 2011 e nel frattempo, nei Paesi africani e in Sudamerica, la natalità ha continuato a crescere. Quindi tutto lascia immaginare che la cifra riguardante i bambini senza famiglia sia oggi molto più alta.
“Il secondo numero – prosegue Griffini” – è riferito alle coppie italiane che fanno domanda di adozione. Nonostante tutti i problemi, nonostante la cattiva pubblicità che circonda l’adozione internazionale, sono ancora circa duemila le coppie che ogni anno ottengono dai tribunali per i minorenni l’idoneità all’adozione. Ma quelle che fanno richiesta, e poi si perdono per strada, vengono scoraggiate, si spaventano per i costi troppo elevati e tanto altro ancora, sono quattro volte tanto, circa ottomila. Sarebbe proprio impossibile sostenere e accompagnare queste coppie generose con una serie di interventi pubblici e con la collaborazione degli enti autorizzati all’adozione? Evidentemente no. Mancano finanziamenti e progetti, non la disponibilità delle famiglie che ancora, quasi incredibilmente, non viene meno”.
Insomma, è un po’ come dire che gli ingredienti ci sono, ma nessuno sembra avere la voglia, la forza o la determinazione per metterli insieme in una ricetta giusta.

Lo sguardo verso l’Africa

Eppure, sottolinea Griffini, c’è anche un altro elemento fondamentale che si aggiunge a questo quadro: l’Africa. Qui, contrariamente a quanto succede da noi, la natalità è in enorme crescita e di conseguenza, purtroppo, cresce anche il numero dei bambini orfani. Anche in questo caso non ci sono numeri ufficiali, ma se si pensa che in un rapporto del 2009 si parlava di 12 milioni di orfani, in Africa, solo a causa della morte dei genitori per AIDS, è logico pensare che, con gli anni e le diverse malattie, non sia difficile arrivare a stimare almeno 100 milioni di orfani.
Cosa si fa per tutti questi bambini abbandonati? Bambini che, quando va bene, si trovano in un orfanotrofio che dovranno lasciare una volta compiuti i 14 anni, senza avere al di fuori qualcuno che possa occuparsi di loro.
Ai.Bi. conosce quali sono le condizioni di questi minori e sa anche quali siano i passi da fare, portando avanti dei progetti in tal senso in alcuni Paesi nei quali è presente, come in Ghana, per esempio. Innanzitutto, racconta Griffini, si prova a dare loro “uno stato giuridico. L’identità anagrafica è indispensabile sia per rintracciare le famiglie dei bambini che si perdono nelle megalopoli africane, sia per avviarli all’adozione internazionale. Nessun tribunale, né in Africa né in Italia, prenderebbe in considerazione la possibilità di definire l’adozione di un bambino privo di documenti”.
Adozione che, comunque, arriva dopo i tentativi di rintracciare le famiglie d’origine per valutare la possibilità di reinserire i bambini al loro interno e, se ciò non è possibile, dopo i tentativi di effettuare delle adozioni nazionali all’interno del Paese. “Solo alla fine, falliti tutti i tentativi di non sradicare quel piccolo dal suo contesto, si parte con l’adozione internazionale. Per ogni minore una procedura complessa e costosa che però non sarebbe giusto aggirare”.
Il problema è che queste ricerche costano, e se nessuno se ne assume l’onere, i bambini rimangono in orfanotrofio, nel limbo dell’abbandono. Oppure si affidano ai trafficanti di essere umani per provare a raggiungere comunque l’Europa.

Il disinteresse delle istituzioni

A quello economico, però, si somma anche un altro problema denunciato da Griffini, ovvero che né l’Unicef né le istituzioni si interessano di Adozione Internazionale: “C’è ancora un’ideologia che equipara questa scelta a una sorta di colonialismo. Meglio aiutarli a casa loro? Certo, quando è possibile. Ma quando i loro genitori non si sono più, oppure non vogliono o non possono occuparsene, cosa facciamo? Li lasciamo allo sbando?”.
Le cose non vanno meglio anche prese “dall’altro lato”, ovvero quello dei Paesi d’origine dei minori. Spiega il Presidente di Ai.Bi.: “Kenia ed Etiopia hanno chiuso i rubinetti dell’adozione e non intendono ripartire. I motivi? Anche in questo caso ragioni culturali legate un africanismo malinteso e alla volontà di non collaborare in alcun modo con gli Stati europei. Per quanto riguarda il Congo invece c’è un accordo bilaterale fermo nei cassetti del ministero degli Esteri. Problemi di applicazione delle rispettive leggi sulla privacy. Sarebbe semplice risolvere l’intoppo, ma non c’è la volontà politica di farlo”.
La conclusione, dunque, arriva da sé. Scrive Moia su Avvenire: “Insomma, per ridare fiato all’adozione internazionale, per strappare al loro destino di miseria e di sottosviluppo alcune migliaia di bambini…, per soddisfare i progetti di genitorialità di tante coppie italiane e per dare una mano al nostro asfittico quadro demografico, una strada percorribile esiste. Ma bisogna volerlo. E qualcuno evidentemente, lassù dove si potrebbero prendere le decisioni che contano, sta forse ancora pensando se è opportuno farlo”.