“Se questa è la vita, Dio, allora, o tu non ci sei o tu non ci ami!”

Nella XIX Domenica del Tempo Ordinario la riflessione del teologo Don Chiodi prende spunto dalla Prima Lettura Dal primo libro dei Re 1 Re 19,4-8, dalla seconda, dalla Seconda Lettura Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesìni Ef 4,30-5,2 e dal Vangelo Dal Vangelo secondo Giovanni Gv 6,41-51

Il Vangelo della scorsa domenica concludeva con la famosa parola di Gesù: «Io sono il pane della vita.

È proprio contro questa parola che i Giudei si mettono a mormorare. ‘Mormorare’ è una parola tipica del deserto, quando gli ebrei avevano accusato il Signore: «ci hai condotto in questo deserto per farci morire?». “Tu – gli avevano detto con rabbia – non sei un Dio di vita, non sei un Dio amante della vita, ma sei un Dio di morte!”.

Questo fu il grande peccato di Israele: cadere nella tentazione di accusare Dio di essere infedele, un Dio che promette, ma non mantiene, un Dio che illude e abbandona. In fondo, questa è l’accusa: “Tu non ci ami!”.

Questa può essere anche la storia di tanti uomini e donne di oggi: un atto di accusa contro Dio: “Dove sei? Ci hai abbandonato? Dove ti nascondi?”.

A questa domanda, a volte, qualcuno risponde rinnegando Dio: “se questa è la vita, allora, o tu non ci sei o tu non ci ami!”.

Certo, se noi siamo qui ad ascoltare questa Parola, se noi siamo qui a celebrare l’Eucarestia, vuol dire che noi crediamo in Gesù, ci fidiamo della sua Parola.

Ma non è sempre così sicuro.

Anche quelli che ascoltano Gesù, nel Vangelo di Giovanni, si scandalizzano di lui. Lo rifiutano. Non possono accogliere le sue parole. Loro credono di sapere chi è Gesù. Credono di conoscerlo. Credono di conoscere suo padre, Giuseppe, e sua madre.

Per questo si chiedono con scetticismo: «Come dunque può dire: “Sono disceso dal cielo”?».

Non possiamo dunque, nemmeno noi, dare per scontato che davvero ci fidiamo di Gesù. Nessuno di noi può evitare questa domanda, credendosi al sicuro, con arroganza.

Davvero ascoltiamo la sua Parola e ci fidiamo di Lui?

Il racconto della prima lettura, dal primo libro dei Re, può essere per noi una bella occasione per riflettere sul nostro rapporto personale con il Signore.

Il profeta Elia, lo sappiamo, era un uomo molto coraggioso. Era un testimone di Dio. Ascoltava le sue parole e le proclamava con forza e zelo. Viveva in mezzo a un popolo che aveva tradito la fede, e aveva abbandonato il Signore. Ma non si era mai ‘lasciato andare’, anche se era contro corrente.

Eppure, anche Elia, un giorno, andò in crisi.

Dopo aver dato l’ennesima testimonianza della sua fede, la regina Gezabele si era scatenata contro di lui e lo aveva minacciato di morte.

A quel punto, Elia vacilla. Ha paura. Scappa, per salvarsi.

A tutti noi può succedere di aver paura e di voler fuggire.

Ma, non basta. Ad un certo punto Elia è preso come da un’angoscia mortale. Da solo si inoltra nel deserto. Si mette a camminare per una giornata intera, fino a quando, stremato, alla fine va a sedersi sotto una pianta, una ginestra.

Elia ha girovagato senza meta. Non sa più dove andare, che cosa fare.

Il testo biblico dice: «Desideroso di morire, disse: “Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri”». È stanco di lottare, Elia, al punto di desiderare la morte. Notate: non vuole uccidersi, ma si augura che il Signore prenda la sua vita, lo faccia morire.

Dice: «io non sono migliore dei miei padri». Chissà, forse un giorno aveva pensato di non essere come gli altri. Aveva pensato di essere migliore, lui.

Ma ora, tutto questo crolla, come un castello di sabbia.

Così Elia si addormenta. Entra in un sonno profondo. Non ha più forza!

 

Forse, anche a noi, in certi momenti della vita, può essere successo o può succedere, di perdere la voglia di lottare e addirittura di vivere.

È come se il desiderio di vivere, che è la molla che ci spinge ogni giorno, scomparisse.

È come quando un motore rimane senza benzina. Non ce n’è più.

Elia qui tocca con mano la sua impotenza, radicale.

È svuotato.

È in questo momento tremendo di prova, che il Signore lo ‘tocca’, lo raggiunge, gli si fa vicino.

Il testo biblico dice: «Ma ecco che un angelo lo toccò e gli disse: «Àlzati, mangia!». Elia dorme. Ma la scena è descritta come reale. Non è semplicemente un sogno.

Quell’angelo di Dio, toccandolo, lo sveglia dal sonno. Elia sente che qualcuno altro lo ‘tocca’. Era solo, disperato. Ma qualcuno gli si fa vicino.

Quell’angelo, poi, gli dice di mangiare. Elia, non aveva mangiato quel giorno. Non aveva portato scorte. Davvero poteva morire.

Alza gli occhi, allora, il profeta: «e vide vicino alla sua testa una focaccia, cotta su pietre roventi, e un orcio d’acqua». Un pane profumato, ancora caldo, e acqua abbondante, all’improvviso, come in dono, sono lì accanto a lui.

Elia non si chiede chi è quell’angelo che lo ha toccato. Semplicemente «mangiò e bevve, quindi di nuovo si coricò». È talmente esausto, Elia, che si limita a mangiare e bere e poi si riaddormenta. Sembra non accorgersi di quel dono straordinario che gli viene offerto. Sembra resistere.

Eppure l’angelo insiste.

Dio non si demoralizza per le nostre stanchezze, per la nostra sfiducia. Non si stanca di noi, quando noi ci stanchiamo di lui.

 

Si ripete la scena una seconda volta: il ‘tocco’ di Dio, la parola dell’angelo, il pane e l’acqua. Stavolta l’angelo gli dice: «Àlzati, mangia, perché è troppo lungo per te il cammino».

È un invito chiaro a continuare il cammino nel deserto.

Stavolta, però, non sarà un cammino per fuggire, non sarà il cammino di uno sconfitto. Elia, stavolta, camminerà fino alla montagna di Dio, il Sinai, dove i suoi padri avevano incontrato il Signore, avevano ricevuto il dono della Legge, per vivere come un popolo di fratelli.

Così sarà per Elia: «con la forza di quel cibo camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb».

Ecco, nel Vangelo, in modo bellissimo Gesù dice proprio questo ai Giudei che si sono scandalizzati di lui: «nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato».

È il Padre che ci attira. È Dio che ci viene incontro. È Lui che ‘tocca’ la nostra vita. È Lui che ci guarisce e trasforma la nostra debolezza e forza. È Lui che ci fa grazia.

Non siamo noi che ci salviamo da soli.

 

E Gesù è la rivelazione compiuta di questo dono.

 

Il Vangelo di oggi ci dice: «Io sono il pane della vita … Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».

Queste parole ci dicono che la Parola si è fatta carne e che questa carne dà vita, forza, cibo, nutrimento al mondo intero.

Ma perché questo accada occorre che noi ci fidiamo della Parola di Gesù, la Parola che è Gesù.

Se ci nutriamo di Lui, non soffriremo più fame e sete.

Dovremo camminare nel deserto, certo, sperimenteremo la pace, la fatica, la stanchezza, ma la sua Parola, la sua carne saranno la nostra forza!

don Maurizio