Seid Visin, un “altro” nostro figlio: un grido di aiuto che non deve andare perso

La vicenda di Seid Visin, il ventenne che si è tolto la vita a Nocera Inferiore, chiama tutti alla responsabilità dell’accoglienza vera di chi ha sulle spalle storie sconosciute e chiede solo che si aprano loro le braccia

La vicenda, purtroppo, è ormai nota a tutti: Seid Visin, ragazzo di 20 anni, nato in Etiopia e adottato all’età di sette anni, ex calciatore delle giovanili del Milan, si è tolto la vita nella sua casa di Nocera Inferiore.
Su tutti i giornali, dopo il suo gesto, è circolata molto una lettera, scritta dallo stesso Seid, in cui il ragazzo parla dei sentimenti suscitati in lui dagli atteggiamenti di razzismo che ha sentito nei suoi confronti. Una lettera che, in realtà, non è stata scritta in nei giorni precedenti il suo gesto, ma risale a ormai qualche anno fa.

Seid Visin e la difficile integrazione dei figli che vengono da lontano

D’altra parte, anche nel giorno del funerale, il padre adottivo di Seid ha sottolineato ai cronisti presenti come suo figlio non si sia suicidato per problemi di razzismo. Seid, ha detto alla Gazzetta anche l’allenatore dell’ultima squadra locale con la quale ha giocato: “Era un talento dal cuore fragile”, che aveva finito per allontanarsi anche dal calcio e, chissà per quali strade, conosciute solo a lui, arrivare a pensare di suicidarsi.
Una storia terribile, che ha giustamente smosso i sentimenti di tutti, e nella quale le ragioni del razzismo, della fragilità dei ragazzi, delle difficoltà di integrazione, specie per chi arriva da lontano, con storie complicate alle spalle… si sommano e si intrecciano in un groviglio che spiegare fino in fondo non si può. Nemmeno da chi è stato più vicino, per anni, a questo figlio, lo ha accolto, amato e, ora, gli deve rendere l’ultimo saluto portandosi per sempre questo mistero nel cuore.

Quello che rimane, oltre alle storie e i sentimenti di chi ha conosciuto Seid e ha condiviso con lui una pezzo del proprio cammino, è quella lettera, che anche se lontana nel tempo e non direttamente collegata al suo gesto, rimane un grido di disperazione e di dolore che vale la pena ascoltare, ricordare, e su cui riflettere oggi come in futuro.

La lettera scritta da Seid Visin anni prima del suicidio

Dinanzi a questo scenario socio-politico particolare che aleggia in Italia, io, in quanto persona nera, inevitabilmente mi sento chiamato in questione. Io non sono un immigrato. Sono stato adottato quando ero piccolo. Prima di questo grande flusso migratorio ricordo con un po’ di arroganza che tutti mi amavano. Ovunque fossi, ovunque andassi, ovunque mi trovassi, tutti si rivolgevano a me con grande gioia, rispetto e curiosità. Adesso, invece, questa atmosfera di pace idilliaca sembra così lontana; sembra che misticamente si sia capovolto tutto, sembra ai miei occhi piombato l’inverno con estrema irruenza e veemenza, senza preavviso, durante una giornata serena di primavera.
Adesso, ovunque io vada, ovunque io sia, ovunque mi trovi sento sulle mie spalle, come un macigno, il peso degli sguardi scettici, prevenuti, schifati e impauriti delle persone. Qualche mese fa ero riuscito a trovare un lavoro che ho dovuto lasciare perché troppe persone, prevalentemente anziane, si rifiutavano di farsi servire da me e, come se non bastasse, come se non mi sentissi già a disagio, mi additavano anche la responsabilità del fatto che molti giovani italiani (bianchi) non trovassero lavoro.
Dopo questa esperienza dentro di me é cambiato qualcosa: come se nella mia testa si fossero creati degli automatismi inconsci e per mezzo dei quali apparivo in pubblico, nella società diverso da quel che sono realmente; come se mi vergognassi di essere nero, come se avessi paura di essere scambiato per un immigrato, come se dovessi dimostrare alle persone, che non mi conoscevano, che ero come loro, che ero italiano, che ero bianco. Il che, quando stavo con i miei amici, mi portava a fare battute di pessimo gusto sui neri e sugli immigrati, addirittura con un’aria troneggiante affermavo che ero razzista verso i neri, come a voler affermare, come a voler sottolineare che io non ero uno di quelli, che io non ero un immigrato.
L’unica cosa di troneggiante però, l’unica cosa comprensibile nel mio modo di fare era la paura. La paura per l’odio che vedevo negli occhi della gente verso gli immigrati, la paura per il disprezzo che sentivo nella bocca della gente, persino dai miei parenti che invocavano costantemente con malinconia Mussolini e chiamavano “Capitano Salvini”. La delusione nel vedere alcuni amici (non so se posso più definirli tali) che quando mi vedono intonano all’unisono il coro ”Casa Pound”. L’altro giorno, mi raccontava un amico, anch’egli adottato, che un po’ di tempo fa mentre giocava a calcio felice e spensierato con i suoi amici, delle signore si sono avvicinate a lui dicendogli: “goditi questo tuo tempo, perché tra un po’ verranno a prenderti per riportarti al tuo paese”.
Con queste mie parole crude, amare, tristi, talvolta drammatiche, non voglio elemosinare commiserazione o pena, ma solo ricordare a me stesso che il disagio e la sofferenza che sto vivendo io sono una goccia d’acqua in confronto all’oceano di sofferenza che stanno vivendo quelle persone dalla spiccata e dalla vigorosa dignità, che preferiscono morire anziché condurre un’esistenza nella miseria e nell’inferno. Quelle persone che rischiano la vita, e tanti l’hanno già persa, solo per annusare, per assaporare, per assaggiare il sapore di quella che noi chiamiamo semplicemente “Vita”.