Stipendi da 12.500 euro al mese e buonuscite da capogiro. Perché un codice etico per le ONG non si può più rinviare

Dopo le dichiarazioni di Marco Griffini (Ai.Bi.) tiene banco la necessità di regolamentare un settore che, in Italia, rischia una crisi di credibilità

Dopo le dichiarazioni dei giorni scorsi di Marco Griffini, presidente di Ai.Bi. – Amici dei Bambini, sulla necessità di un codice etico per chi si occupa di raccolta fondi a fini solidali, tiene banco il tema della trasparenza e dell’utilizzo dei proventi delle donazioni da parte delle “multinazionali della solidarietà”. Ma esistono delle regole che normano questa prassi?

Attualmente la raccolta fondi sarebbe normata dallarticolo 7 del Codice del Terzo settore. Questo sancisce che “Gli enti del Terzo settore, possono realizzare attivita’ di raccolta fondi anche in forma organizzata e continuativa, anche mediante sollecitazione al pubblico o attraverso la cessione o erogazione di beni o servizi di modico valore, impiegando risorse proprie e di terzi, inclusi volontari e dipendenti, nel rispetto dei principi di verità, trasparenza e correttezza nei rapporti con i sostenitori e il pubblico, in conformità a linee guida adottate con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, sentiti la Cabina di regia di cui all’articolo 97 e il Consiglio nazionale del Terzo Settore”.

Purtroppo, citate dall’articolo 7, le linee guida del Ministero del Lavoro, cui la norma rimanda, non sono ancora state rese note. Linee guida che, chissà, potrebbero prendere ispirazione dal codice etico menzionato da Griffini. E che, nelle intenzioni del presidente di Ai.Bi., dovrebbe prevedere: “L’assenza di un compenso al presidente e ai membri del Consiglio direttivo, tutti devono essere volontari; l’impossibilità per chi fa raccolta fondi a fini di solidarietà di retribuire i propri dirigenti e dipendenti con stipendi equivalenti a quelli del settore profit, con l’obbligo di pubblicare sui propri siti i vari livelli retributivi, come già fa Ai.Bi.; il divieto assoluto di acquisire spazi pubblicitari a pagamento per la raccolta fondi; il divieto assoluto di fare ricorso alla ‘pornografia del dolore’ per attività di comunicazione”, oltre al divieto di “far transitare soldi raccolti in Italia alle ‘case madri’ estere, con l’obbligo di inviarli direttamente nei Paesi di destinazione”.

Il tema, comunque, non è più rinviabile. Basta rileggersi i passaggi presenti nel capitolo “Curriculum e carriere” del libro L’industria della carità”, scritto da Valentina Furlanetto per Chiarelettere: “Se combatti la povertà, e per questo chiedi soldi ai donatori, ma poi ti attribuisci uno stipendio a cinque zeri, la tua credibilità rischia di incrinarsi”, spiega l’autrice quando racconta il caso della buonuscita miliardaria di Irene Khan, ex segretaria generale di Amnesty International. Nel 2011 si scoprì che la buonuscita accreditatale sul conto in banca ammontava a 500 mila sterline, quattro volte il suo stipendio annuale di 132.490 sterline. Anche la sua vice, Kate Gilmore, ricevette una liquidazione d’oro di 300mila sterline. Altri esempi? Il direttore di Save the Children USA con 365 mila dollari l’anno di stipendio o il direttore di Care, che prende 250 mila dollari l’anno.

Anche in Italia, secondo un’indagine Hay Group, circa il 50% dei dirigenti e dei quadri del settore non profit proviene da aziende di stampo tradizionale. Secondo il CEO della società di cacciatori di teste Chaberton Partners, intervistato da Avvenire, la retibuzione annua di un “ONG Project Leader” arruolato da una delle multinazionali della solidarietà “si aggira intorno agli 85mila euro lordi. I consulenti chiamati per specifici progetti di breve durata, possono arrivare a un lordo mensile di 12.500 euro”.

Chiaro? 12.500 euro al mese. Così si capisce perché il Terzo Settore rischi, oggi, una crisi di credibilità. Ma, una volta, non era così… che tutto sia cambiato proprio con l’avvento delle “multinazionali della solidarietà” organizzate per realizzare campagne di raccolta fondi su modelli internazionali?