Affido: bimbi in carcere perché le madri detenute temono di perderli

Marco faceva disegni tutti neri. Quando a 2 anni e 9 mesi è entrato in casa di Francesco e Paola non aveva mai visto un interruttore della luce. In carcere l’illuminazione era centralizzata, e dietro le sbarre anche il mondo naturalmente colorato della mente di un bambino diventa a tinte scure. Marco è stato a Rebibbia con sua madre fino a quando, poco prima dei tre anni, per lui è arrivato l’affidamento a Francesco e Paola. “Dopo qualche tempo, e con l’inizio della scuola materna e la frequentazione di altri bambini, i suoi disegni sono diventati colorati”.
 
Francesco, classe 1963 come sua moglie Paola, sono una di quelle famiglie che, oltre ogni ostacolo burocratico e oltre ogni fatica, hanno scelto di aiutare i bambini che vivono in carcere con le loro madri a essere capaci di futuro. Intessono speranza, gettano ogni giorno le basi per una società migliore.

E’ la fiducia il filo d’oro che rende possibile l’alternativa al carcere per bambini come Marco. “Non si può arrivare all’improvviso e prendere i bambini, sono necessarie forme che avvicinino le detenute ai genitori affidatari e alla pratica dell’affidamento, vanno accorciate le distanze, le istituzioni devono fare in modo che i genitori si fidino di questo percorso: molto spesso i bimbi restano in carcere perche’ le madri hanno paura di perderli”.
“Marco e’ con noi perche’ un giorno un’assistente sociale andò dalla mamma e le disse “Troveremo una famiglia affidataria” e lei rispose che gli unici a cui avrebbe dato il bambino erano Francesco e Paola.”

Li conosceva, portavano gia’ fuori il loro bambino nei week end e con loro si era instaurata una sintonia.

Francesco e Paola circa 11 anni fa, grazie all’associazione “A Roma insieme”, frequentarono per un anno e mezzo un corso, presso il servizio sociale del territorio, condotto da giudici e psicologi. Il percorso di Marco e’ seguito da un’assistente sociale e nel periodo iniziale dell’affidamento erano frequenti le visite a casa della psicologa, mentre ormai la sua consulenza e’ “su chiamata”. “Verrà nei prossimi giorni per vedere la stanza nuova di Marco, visto che abbiamo appena traslocato”.

Per sostenere l’affidamento il Comune eroga un sussidio 220 euro mensili alle famiglie. “Un aspetto da tener presente – commenta Francesco – perche’ condiziona la scelta dell’affido: io sono libero professionista e mia moglie impiegata di banca, ma una famiglia di due operai, magari con gia’ uno o due figli, non può permettersi di fare questa scelta”.

Sulle difficoltà iniziali burocratiche legate all’affidamento, che pure ci sono state, Francesco preferisce non insistere. Quel che conta e’ che “l’affidamento in Italia e’ poco conosciuto dal punto di vista culturale”. Anzi, spesso non e’ proprio contemplato: “Un esempio: ogni anno sui moduli d’iscrizione a scuola devo aggiungere io la voce ‘l’affidatario’ perche’ non e’ prevista”. Nel caso di Marco bisogna anche fare i conti con la “chiusura mentale nei confronti dell’etnia rom”. Un giorno a Marco i compagni di classi dissero: “Ma quelli non sono i tuoi veri genitori”. “Allora io portai suo padre e sua madre a ritirare le pagelle. Da allora si tranquillizzò, aveva sancito davanti agli altri che anche lui aveva dei genitori”. Anche quando si trattò di togliere le adenoidi non fu facile: “Il medico ti guarda e poi chiama l’assistente sociale”.
Tutto diventa burocraticamente più difficile, con un piccolo in affidamento, e di più se straniero, di più se rom. Ma i genitori, si sa, sanno guardare oltre: “La meta finale e’ un bambino che possa avere un futuro.