Faraone, “Quell’orribile Casa di Alice, dove i sogni non erano ammessi”: “In quei momenti ho pensato a mia figlia”

faraoneLa “Casa di Alice”, la casa dei sogni, aveva una stanza chiamata “della crisi”. Un ossimoro. 2 metri e 58 centimetri per 6 metri e 11 centimetri. Quattro pareti tinteggiate d’azzurro. Nessun quadro, né un tavolo, nemmeno una sedia. Una stanza vuota, vestita soltanto dall’azzurro delle pareti. Comune di Grottammare, provincia di Ascoli Piceno. Con una delegazione del Pd, abbiamo deciso di essere lì. Nell’ennesimo luogo dell’orrore.
I piedi delle sedie e delle poltrone, in quella struttura, sono attaccate con lo scotch, come fossero vagoni di un treno. O così, o ce le lanciano addosso, dicono gli operatori. Non c’è un giardino. Gli “utenti” hanno un’età compresa tra gli otto e i vent’anni. In tre stanze, tutti insieme, stessi orari, nessuna attività differenziata. Nessuna organizzazione dello spazio e del tempo. “Elementare Watson”, direbbe Sherlock Holmes.
Le forze dell’ordine, piazzano una telecamera in quella stanza, e nelle altre stanze della struttura e scoprono che in quella casa i sogni non erano ammessi. La follia non era un sogno, come per il Gatto in “Alice nel paese delle meraviglie”, ma una cosa da contenere in un cubo.

“Ma io non voglio andare fra i matti”, osservò Alice.
“Bè, non hai altra scelta“, disse il Gatto “Qui siamo tutti matti. Io sono matto. Tu sei matta.”
“Come lo sai che sono matta?” Disse Alice.
“Per forza,” disse il Gatto: “altrimenti non saresti venuta qui.”

Tutte le volte che uno dei 12 ragazzi del centro aveva una crisi, veniva sbattuto in isolamento. Chiuso a chiave e lasciato lì da solo, fino a quando non avesse ritrovato la serenità. Come nei film, in carcere, il detenuto cerca di scappare, viene catturato e lasciato in gattabuia, digiuno e senz’acqua. Punizione esemplare. Educativa.
In quella stanza azzurra, non c’era nessuna chiave rossa per uscire, nessuna pozione per diventare più piccola e scappare, nessun pasticcino per diventare più grande e recuperare la chiave. Potevano tentare di aprire la porta, sfinirsi per tentare di buttarla giù. Stremati, non gli restava che sedersi, poi sdraiarsi. Infine, aspettare che qualcuno aprisse e gli consentisse di continuare ad inseguire il coniglio bianco.
Ho pensato a mia figlia in quei momenti. Ho pensato, se tutte le volte che avesse una crisi, che a volte sfocia nell’autolesionismo, la lasciassimo chiusa in una stanza da sola a riempirsi di botte e morsi. Ma come può raggiungersi questo livello di assuefazione? Come si arriva al punto di non accorgersi del dolore altrui? Accorgersi e occuparsi di chi soffre e non sa comunicarlo in modo convenzionale, vale ancora di più. Scovare quel dolore e saper trovare il modo di arginarlo, aumenta in modo esponenziale la sensibilità di un uomo. Gli dona una ricchezza interiore, altrimenti insperata. “Saretta non pensarci, cancellalo”. Quanto vale, vedere la sua manina muoversi come una gomma lungo la fronte, per fare il gesto di cancellare un brutto pensiero. Quanto vale aver costruito quella consapevolezza in un essere umano.
La crisi nasce da un pensiero distorto, da un desiderio represso. Si combatte con la parola, con i gesti, con i toni rassicuranti, con distrazioni positive. Certo, necessita di più tempo e pazienza, rispetto a quanto ne occorre utilizzando “la stanza”.
La stanza è la scorciatoia di operatori che non sanno fare il proprio mestiere. Selezionati, non si sa per quali meriti.
La stanza è il simbolo della superficialità di una società e di istituzioni che non hanno mai il tempo di occuparsi delle cose che contano veramente.
La “Casa di Alice” è un’altra cosa.
“Se io avessi un mondo come piace a me, là tutto sarebbe assurdo: niente sarebbe com’è, perché tutto sarebbe come non è, e viceversa! Ciò che è, non sarebbe e ciò che non è, sarebbe!”(Alice).