Solo nell’accoglienza e nell’ospitalità reciproca noi ‘rimaniamo’ nell’amore di Gesù per noi!

Nella Domenica Di San Alessandro Martire la riflessione del teologo Don Chiodi prende spunto dalla PRIMA LETTURA Dal primo libro dei Maccabei 2, 49-52.57-64, SECONDA LETTURA Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi 1, 27-30 e dal Dal vangelo secondo Giovanni 15, 9-16.

Oggi nelle chiese cattoliche di tutto il mondo – eccetto il rito ambrosiano – si celebra la XXI domenica del tempo ordinario e si ascolta l’ultima parte del capitolo VI del Vangelo di Giovanni.

Qui, proprio alla fine, davanti ai molti discepoli che lasciano Gesù e se ne vanno via, perché dicono: «questa Parola è dura! Chi può ascoltarla?», ecco, davanti a questo rifiuto, Gesù dice ai Dodici: «Volete andarvene anche voi?».

Mi ha sempre colpito questa franchezza di Gesù, una franchezza che non è disfattista, ma realista.

Gesù fa appello alla libertà di chi lo ascolta. Non vuole che nessuno di noi lo segua, o sia cristiano, per obbligo o quasi per fare un piacere a Lui. Gesù sollecita la libertà e l’impegno dei suoi discepoli, con questa domanda.

Nessuno di noi è qui per costrizione o perché non sa che cos’altro fare nella vita. Siamo qui perché, come dice Pietro nella sua bellissima risposta a Gesù, solo Gesù ha «parole di vita eterna».

È importante quel ‘solo Tu’. “Tu, Gesù non sei come tutti gli altri. Sei come noi, ma sei altro da noi. Tu hai parole che ci rivelano la bellezza, la pienezza, la forza, la grazia e la speranza della vita! Senza di Te non sapremmo dove andare. Ci troveremmo dispersi, disorientati, soli, frastornati, privi di punti di riferimento e di speranza!”.

Noi, oggi, siamo qui perché – come dice Pietro – «abbiamo creduto e conosciuto che Tu sei il Santo di Dio». Notate il passaggio dei due verbi: prima ‘creduto’ e poi ‘conosciuto’. Non è che prima si conosce e poi si crede. Al contrario, prima si crede e poi si conosce. Non è possibile nessuna conoscenza di Gesù se non a partire dalla fiducia che noi gli accordiamo.

Succede, con Lui, quel che accade nella vita, quando incontriamo le persone: solo se mi fido, solo allora conosco chi mi sta accanto. Non è possibile conoscere l’altro se non accordandogli fiducia. Solo se l’altro si sente accolto e amato, solo allora si manifesta per quello che è. Solo dandogli fiducia, potrò poi conoscerlo davvero.

Certo, nelle relazioni umane può succedere che, quando hai dato fiducia, poi tu ti accorga che l’altro ne approfitta, ne abusa, ti delude.

Ma non è così per Gesù: “Tu solo – dice Pietro – sei davvero affidabile! Tu solo, solo Tu, sei la sovrabbondante ‘risposta’ a ogni nostro desiderio. Tu sei più che una risposta, perché Tu vai oltre ogni nostra domanda e desiderio, perché ci apri una speranza che non potevamo immaginare e che però, una volta che ti abbiamo incontrato, risponde pienamente al nostro desiderio di bene e di felicità”.

Ecco, avremmo dovuto leggere questo Vangelo, ma non lo abbiamo letto.

Oggi, invece, solo a Bergamo, si celebra la solennità di Sant’Alessandro, che è il patrono non solo della città, ma di tutta la nostra diocesi.

Voi conoscete la ‘leggenda’ che ci ha tramandato la vita e la morte, soprattutto, di questo santo martire.

Sant’Alessandro, secondo queste tradizioni, apparteneva alla legione Tebana, o Tebea, che, alla fine del III secolo era stanziata nelle Alpi Svizzere.

Ebbene, secondo la tradizione, prima di sferrare l’attacco contro i montanari che abitavano quella regione, l’imperatore volle che questi soldati facessero un sacrificio agli dei. Ma, uno dopo l’altro, quei soldati, che erano cristiani, si rifiutarono di celebrare il sacrificio pagano.

E così furono uccisi tutti.

Sant’Alessandro non sarebbe morto però in quella circostanza, perché era “distaccato” altrove.

Perciò, dopo molte peripezie, alla fine arrivò a Bergamo dove, dopo aver predicato e convertito molti alla fede cristiana, fu decapitato, nei pressi dell’attuale chiesa di Sant’Alessandro in Colonna, dove appunto si conserva la colonna presso la quale Alessandro sarebbe morto martire.

Noi non abbiamo nessuna ‘prova storica’ di questa leggenda, però questo racconto è verosimile. Molti soldati romani, prima di Costantino, divennero cristiani. In mezzo a un mondo pagano, quello romano, molti aderirono alla fede in Gesù, convertendosi alla fede cristiana, e furono disposti a dare la vita per Gesù, morendo martiri …

La prima lettura, dal libro dei Maccabei, ci ha ricordato le parole di quel fedele ebreo, Mattatia, che si ribella alla pretesa degli invasori di cancellare la fede di ‘padri’: «Ora, figli, mostrate zelo per la legge e date la vostra vita per l’alleanza dei nostri padri».

Questo credente, pieno d’amore per il Signore e la sua alleanza, è disposto a ‘dare la vita’, pur di non essere infedele a Lui.

Ecco, questo è il martire: è uno che è disposto a dare la vita per il Signore.

Nei primi secoli del cristianesimo, molti cristiani morirono martiri. Amavano a tal punto Gesù, da essere disposti perfino a morire per Lui.

Però, vedete, ‘dare la vita’ per Gesù non significa necessariamente ‘morire’.

‘Dare la vita’ – per Gesù, qui, in questo caso – significa (anche) essere disposti a dedicarla.

Dare la vita è spenderla, nelle piccole cose di ogni giorno, per una ‘causa’, per qualcosa o qualcuno che è più grande della nostra stessa vita

Questo vuol dire essere cristiani: aver scoperto che Gesù è l’unica ‘causa’ per la quale vale davvero la pena dare la vita

Il vangelo della solennità di Sant’Alessandro, dal capitolo quindicesimo di Giovanni dice: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici».

Sì, perché a noi cristiani è chiesto di ‘dare la vita’ per Gesù, di dedicarla a Lui, solo perché Lui, per primo, ha dato la vita per noi’. Noi lo amiamo, riamandolo, rispondendo ad un amore che ci ha anticipato e graziato.

Questo vangelo ci ricorda, nelle parole di Gesù, che ‘dare la vita’ per Lui significa, concretamente, amarci gli uni gli altri: «questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi».

Per amare davvero Gesù, a noi è richiesto di amarci reciprocamente. È solo nella vita fraterna che noi cristiani ascoltiamo la Parola di Gesù e lo amiamo fino in fondo.

Se uno dicesse: “Io amo Gesù”, ‘rifugiandosi’ magari solo nel culto, ecco quello ingannerebbe se stesso, magari gli altri, ma non certo Dio. È solo nell’amore fraterno, nell’accoglienza e nell’ospitalità reciproca, che noi ‘rimaniamo’ nella Parola e nell’amore di Gesù per noi!

Nella seconda lettura, poi, Paolo esorta i cristiani di quel tempo a essere dei buoni cristiani ‘comportandosi’ da cittadini «degni del Vangelo».

Ecco, questo è un discorso difficile per noi, oggi. Limitandoci a dire solo una parola, dobbiamo dire che la ‘politica’ non è affatto una cosa sporca. Anzi, al cristiano è chiesto di essere un cittadino degno del Vangelo che egli testimonia.

Noi cristiani dovremmo vivere in modo pieno, convinto, nel nostro mondo, nella nostra società, dando il nostro contributo perché tutti insieme, credenti e non credenti, possiamo vivere in fraternità, attenti e preoccupati l’uno per l’altro al bene comune, nella solidarietà verso tutti e specialmente i più poveri e i deboli.

Questa è la grazia che invochiamo oggi per la nostra Chiesa di Bergamo.

 

don Maurizio