Bianco e silenzio: i miei ricordi di Bucha

Sono passati più di 15 anni da quanto Francesca Mineo, all’epoca addetta stampa e oggi collaboratrice di Ai.Bi., andò a Bucha, la città ora tristemente nota a tutti per i massacri compiuti dai russi. I ricordi di allora si mischiano alle immagini di oggi, in un racconto che fa riflettere

Il primo ricordo è il bianco. Il secondo è il silenzio.
La strada che da Kiev portava a Bucha era immersa nell’inverno gelido di gennaio. Ghiaccio sull’asfalto, cumuli di neve spalata ai lati della carreggiata, neve e ghiaccioli sulle fronde di un bosco di conifere altissime che fiancheggiavano una strada dritta. Era un’atmosfera da fiaba.
Viaggiavo in auto e provai ad aprire il finestrino: il freddo mi tagliò il viso. Ma ancor più che dal gelo fui colpita dal silenzio, che si percepiva forte, al di sopra del rumore dell’auto.
Sono passati circa 15 anni, e sembra ormai un’altra epoca.
Oggi i colori di Bucha sono nero e grigio cenere, residui dei combattimenti e delle devastazioni.

La quiete spenta dei ragazzi negli orfanotrofi di Kiev

All’epoca mi occupavo per AiBi della comunicazione e delle relazioni con la stampa. Insieme ai rappresentanti dell’Associazione in Ucraina avevo accompagnato una giornalista di Io Donna che voleva vedere gli istituti, comprendere come trascorresse la vita di tanti bambini prima di trovare una famiglia accogliente o prima di intraprendere una vita autonoma, da 18enni, perché nessuno – parenti o genitori biologici, possibili coppie ucraine o straniere – si era mai presentato per loro.
Prima di andare a incontrare gli orfani di Bucha, io e la giornalista avevamo visitato due istituti del centro di Kiev: casermoni in stile sovietico a più piani, identici nella struttura e perfino nella suddivisione dei locali, affollatissimi dalla nursery alle stanze per gli adolescenti. In uno di questi istituto entrammo all’ora della ricreazione, perché all’interno vi erano anche le scuole.
Entrambe conserviamo un’immagine che ancora oggi unisce le nostre esperienze all’interno degli orfanotrofi: alcuni ragazzi, uscendo dalle classi, ripetevano gli stessi percorsi, seguendo le linee delle mattonelle, il capo reclinato verso il pavimento. Due, tre giri dell’atrio, poi in cortile, due o tre giri anche lì, quindi di nuovo nell’atrio. Oppure fermi, sugli scalini, ad attendere la successiva campanella per rientrare in classe. È così che può accadere, dopo anni di istituto, di vite regolate da mattina a sera secondo un programma appeso in ogni stanza – dalla doccia mattutina al riordino della propria stanza la sera. Malgrado l’accudimento, lo sforzo di operatori ed educatori, la tenacia della direttrice, la vita di quei bambini e ragazzi appariva come sospesa in un limbo.
A ogni piano svanivano i sorrisi dei bambini della nursery, cullati dalle tate perché provassero almeno un po’ le sensazioni di un abbraccio, per lasciar posto a volti di una quiete spenta.

Gli orfani di Bucha

Così, quel bianco dei boschi che separavano Kiev da Bucha ci era parso come il respiro profondo dopo una malattia.
La cittadina era tranquilla, a misura d’uomo rispetto alla grande e caotica Kiev. L’istituto era una palazzina che poteva apparire una villetta d’altri tempi, circondata da un giardino. La direttrice ci accolse come una zia che non vede da tempo i suoi nipoti, affrettandosi a offrirci tè e biscotti, mentre impartiva ordini garbati ai ragazzini che giravano per casa. Quell’istituto – una casa famiglia, più che un orfanotrofio – accoglieva una 50na di bambini grandicelli, adolescenti e anche qualche maggiorenne che la direttrice non si sentiva di lasciar andare da soli per il mondo.
Di tutto questo andava molto fiera e per quanto ogni tanto qualche ragazzino riuscisse a trovare una famiglia con l’adozione, gran parte di loro erano orfani sociali, ovvero minori con legami familiari ancora esistenti sulla carta seppure assenti nella realtà. Era un luogo più caldo e amorevole rispetto agli istituti che avevamo visto in precedenza, ma pur sempre un limbo.
Chiesi di poter parlare, insieme alla giornalista, con alcuni ospiti maggiorenni. La direttrice mi fece incontrare una ragazza di 18 anni appena compiuti, aveva iniziato una scuola professionale di grafica. Chissà se oggi, donna adulta, lavorerà come grafica. Se sarà ancora viva…
Entrai nella sua stanza, ordinata in modo maniacale, che condivideva con una compagna. Lei arrivò e rividi sul suo volto quell’espressione di quiete spenta notata in alcuni ragazzi dell’istituto di Kiev.

Seppure non possa ricordare i dettagli della scarna conversazione, mi è rimasta la sensazione di dolcezza e insieme di smarrimento che quella ragazza esprimeva. Le rivolsi una domanda semplice: “Cosa vuoi fare da grande, dopo la scuola?”. All’inizio non rispose, come se non avesse sentito. Poi mi disse: “Non so, non ho desideri”.
La direttrice cercò di riempire di affetto quel momento. Ma i nostri sguardi, come quello della ragazza, erano rivolti più lontano, fuori dalla finestra, a guardare in silenzio tutto quel bianco che ieri non dava una risposta ma tranquillizzava il cuore. Chissà quando il bianco e il silenzio potranno tornare sugli alberi di Bucha.

Francesca Mineo
EMERGENZA UCRAINA