“Bombardata” da tensioni e divisioni: tra le vittime di guerra, in Siria, c’è anche la famiglia

siria famigliaDal nostro inviato (Luigi Mariani) – Jamal vive e lavora ad Antakya, a pochi passi da casa mia. Fa il pasticcere, i suoi dolci sono una prelibatezza. Come tutti i siriani del quartiere, sta cercando di rifarsi una vita, dopo essere stato costretto a fuggire dalla Siria. Ben prima che la rivoluzione iniziasse, aveva trascorso un periodo in Italia, dove aveva imparato la lingua e conosciuto sua moglie, una donna polacca da cui aveva avuto una figlia. Poi la decisione di rientrare in Siria, agli inizi del duemila, fino a che la guerra non ha sconvolto la sua vita e cambiato per sempre il corso del suo destino; imprigionato dal regime per motivi politici, è riuscito a uscire in maniera rocambolesca dal carcere, ma al momento di lasciare il paese, sua moglie ha deciso di non seguirlo e di separarsi per sempre da lui, tenendo con sé la bambina.

«Adesso sono solo» mi dice Jamal, mentre continua a girare l’impasto per l’atayef, un tipico dolce siriano a base di zucchero e formaggio.

«Perché non torni in Italia?» gli chiedo.

«Sono senza documenti, come faccio?» mi risponde lui.

«Capisco…»

Non se ne parla spesso, ma tra le tante “vittime” della guerra in Siria c’è proprio la famiglia, un’istituzione sempre più divisa e devastata da tensioni e scontri interni causati dalla guerra, che portano le coppie a divorziare, i fratelli a scontrarsi fra di loro, i figli a opporsi ai propri padri, in gran parte per ragioni politiche, etniche, religiose. Contrasti portati all’estremo dall’esasperazione e dalla disperazione.

Forse nessuno si rende conto fino in fondo di questo aspetto, dell’impatto drammatico che questo conflitto ha realmente sulla vita dei siriani, delle conseguenze che vanno ben oltre le perdite umane e la distruzione materiale causata dai bombardamenti, ma incidono in profondità nel cuore delle persone, sconvolgendo la loro esistenza e compromettendo ciò che hanno di più caro: gli affetti familiari.

In questo senso, anche Jamal è una vittima di guerra: la sua vita non lo soddisfa – me lo dice espressamente – ma al momento la Turchia è l’unico posto dove può stare, in relativa tranquillità. Non glielo domando per delicatezza, ma scorgo nei suoi occhi una malinconia di fondo, la cui origine è facilmente intuibile: gli mancano la moglie e la figlia. A bombardarlo quotidianamente, è la solitudine.

Prima di uscire, gli chiedo quanto gli devo per i dolci; lui pensa che stia scherzando. Insisto: vorrei sdebitarmi in qualche modo per la sua gentilezza.

«Guarda che mi offendo» mi dice «sul serio.» Capisco che la partita è persa, anche stavolta: l’ospitalità dei siriani è una sorta di regola matematica che non conosce eccezioni, nemmeno in periodo di guerra.

Ne ho avuto prova in diverse occasioni. Una volta soltanto sono riuscito a offrire un caffè a un amico di Reyhanli, e per scherzare ho esultato come se avessi segnato un gol.

Anche Jamal (detto “Giuliano”, per via del suo passato in Italia), ci tiene a fare gli onori di casa. Si era fatto una vita, una famiglia, e ora non gli è rimasto più nulla, ma non chiede commiserazione: gli basta farsi nuovi amici, si compiace nell’offrire loro qualche sua specialità dolciaria. Se mostri gusto e apprezzamento verso il frutto delle sue fatiche, allora sì, per un momento il suo volto si illumina. E nonostante tutto ti sorride.

 

In questo momento, la popolazione siriana ha bisogno di tutto l’aiuto possibile, da parte di tutti. Non restiamo a guardare.

 

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