Generare significa accogliere, non ottenere o produrre. A quale prospettiva si ispira l’eterologa?

agoràMercoledì 8 ottobre abbiamo pubblicato l’intervento sul blogger Regalzi sul suo blog “Bioetica” in cui un lettore esprimeva tutti i suoi dubbi sulla proposta di Amici dei Bambini relativa a un emendamento alla legge sull’eterologa secondo cui chi ha scelto questa forma di fecondazione assistita non potrebbe più adottare. Oggi riportiamo di seguito la risposta di Gianmario Fogliazza, del Centro Studi di Ai.Bi.

 

Abbiamo raccolto l’intervento e il commento del blogger Regalzi che avrebbe liquidato arbitrariamente la nostra ipotesi come l’ennesimo e strumentale tentativo di intralciare il tanto preteso ritorno alla legalità della fecondazione eterologa. A tal proposito, proponiamo alcune ulteriori considerazioni e un supplemento di riflessione: il nostro interlocutore alimenta il proprio pensiero a scuole di pensiero e ideologie di cui sono ormai note prospettive e contraddizioni, ma il confronto non ci preoccupa, diventa ulteriore occasione per esplicitare ancor meglio il senso della proposta e il punto di vista prospettico da cui osservare la questione circa la presunta contrapposizione tra adozione e fecondazione eterologa.

 

Da sempre riteniamo che i bambini orfani o abbandonati abbiano il diritto di essere figli. L’istituto giuridico delle adozioni è di loro “proprietà” e non di altri; certo riusciranno ad esercitare tale diritto solo grazie ad una disponibilità di altri soggetti – noi genitori adottivi, non necessariamente cattolici, fermamente riteniamo una mamma e un papà – che potrà raggiungerli al termine di un apposito itinerario.

 

Ma il combinato esercizio di tale diritto (tra attesa e possibile disponibilità) riteniamo sia coerente solo se vedrà riconosciuto in quel bambino un figlio (mai un prodotto), un “figlio proprio” e così “generato” tramite l’accoglienza adottiva: questa riteniamo sia l’autentica eterologa, un’accoglienza che rispetta assolutamente il figlio nella propria dignità, senza pretenderlo ad ogni costo come esito di un qualsiasi processo biologico ancorché sofisticato, accessibile e gratuito.

 

Certo, qualunque approccio all’adozione che rivelasse una “pretesa” mascherata di “disponibilità” sarebbe da respingere: ai bambini orfani o abbandonati vogliamo assicurare una mamma e un papà non certo dei proprietari. L’idoneità all’adozione non è infatti un titolo al portatore e non può essere speso in tale prospettiva. I bambini orfani o abbandonati hanno diritto, anche proprio in virtù della propria singolare esperienza, ad “aspiranti genitori adottivi” di “prima scelta”, non da “ultima spiaggia” e non possono essere, come tutti i figli del resto, considerati come esperienza “sostitutiva”, “compensativa” o “terapeutica”.

 

Certo il cammino di avvicinamento all’esperienza adottiva consente di convertire molti pregiudizi e presupposti ristabilendo un’etica sintesi tra “il desiderio di un figlio” e “il diritto ad essere figlio”; per questa ragione non pretendiamo di giudicare alcun “desiderio di avere un figlio”, ma ci chiediamo schiettamente se tutte le modalità e i percorsi per “avere dei figli” siano “equivalenti” o “indifferentemente sostituibili” e, soprattutto, se corrispondono coerentemente all’istanza di riconoscere nel “concepito”, partorito o adottato, sempre e almeno un figlio, altro soggetto da me, la cui vita libera e dignitosa è affidata alle mie cure e premure non alla mia disponibilità (non si dispone infatti della vita altrui a proprio piacimento e neppure se lo si desidera tanto): mai un oggetto (da pretendere, ottenere, costruire, scegliere, produrre, …) o un soggetto da subordinare alla mia volontà. Sottoscriviamo laicamente quanto recentemente ha dichiarato il Card. Péter Erdő: «Nell’accoglienza dei figli si condensa l’accoglienza dell’altro, degli altri, con cui si impara a scoprire e a costruire la nostra umanità. Accogliere un figlio non è soltanto metterlo al mondo, ma generarlo nella sua alterità».

 

A maggior ragione ci permettiamo di avanzare una secca provocazione (aut-aut) se il processo di legittima “ricerca di un figlio” dovesse progressivamente giungere all’ipotesi adottiva approdandovi quale ultima spiaggia, dopo un itinerario consumato da ciò che è quasi configurabile come un tragitto “terapeutico” segnato dall’accanimento più che dalla caparbietà, spinto sino all’ipotesi dell’eterologa (per il momento penultima spiaggia, ma ce ne attendiamo di ulteriori tra i modelli dell’individualismo esasperato), quasi si fosse alla ricerca della propria gravidanza più che di una disponibilità a donare ed accogliere una vita: non si generano e non si accolgono figli se si è bari-centrati solo su sé stessi e sulle proprie attese, così come non si ama alcuno per tale via.

 

Riconoscere che il diritto ad avere figli sia incoercibile non costituisce un problema, assolutamente: ma questo non autorizza a considerare legittime tutte le modalità per conseguire lo status di “genitori”. L’acquisto e la vendita di bambini è ancora (chissà per quanto tempo?) considerato un “traffico” di minori, neppure se la loro cessione dovesse avvenire con equo accordo economico tra le parti; tali figli poi “saranno comunque bambini amati”, pare rassicurarci Regalzi: speriamo almeno questo, ci mancherebbe, ma resterebbero “venduti” e ciò non compromette la loro dignità, ma pone rilevanti questioni circa la loro strumentalizzazione, ridotti ad oggetto come mai nessuna persona vorrebbe essere trattata. “Anche i figli di puttana sono figli di Dio” diceva un’importante e condivisa iniziativa qualche tempo fa: segnalava con forza la piena identità e dignità di un figlio indipendentemente da chi o come fosse stato generato, senza autorizzarne o suggerirne evidentemente e simultaneamente l’eticità della prassi.

 

Ma, ci chiediamo vista la particolare attenzione di Regalzi, non saranno solo i cattolici a preoccuparsi laicamente della dignità dei figli, del senso della generazione umana, delle persone ibernate al loro stato embrionale, delle donne stuprate e violentate madri stupende dei loro figli, delle mogli abbandonate perché hanno custodito nel grembo i loro figli, delle persone eliminate prima di essere partorite (in particolare le bambine semplicemente perché femmine), dei figli abbandonati per il colore della loro pelle, per la loro disabilità, per la loro presenza “socialmente ingombrante”? 

 

Paradossalmente quando “si pensa ai figli” taluni sono assolutamente assorbiti dai desideri di alcuni (gli adulti) e dai loro diritti, spesso ben pretesi, argomentati e conseguiti – con buona pace dei diritti di tutti gli altri soggetti nel caso coinvolti -, piuttosto che contemplare anzitutto i desideri e i diritti dei figli: ecco che mentre si lotta per l’ennesima modalità per soddisfare il desiderio di diventare genitori, ci si scorda che l’adozione è e resta l’unica possibilità per un minore orfano o abbandonato di tornare ad essere figlio e non solo un bambino.

 

L’illuminato blogger afferma inoltre che “tentare di avere prima figli in tutto o in parte geneticamente legati alla coppia risponde non solo a imperativi culturali e istintivi molto profondi, ma verosimilmente anche a una strategia ottimale per ottenere un figlio”: proprio una bella lezione di strategia, di etica (alla faccia della bioetica cui si ispirerebbe il sito), di antropologia e di economia. Imperativi culturali e istintivi? Strategia ottimale per ottenere un figlio? Ma di cosa stiamo parlando? Chissà se ha dei suggerimenti anche sulle fidanzate? O sui mariti? Su come “ottenerli”? Se sussistono imperativi culturali e istintivi sul tema? Se ha delle tecniche o strategie per assicurare l’esigibilità dell’incoercibile desiderio ad avere una persona che mi voglia bene? Magari anche “per sempre” …

 

Ci permettiamo e chiediamo di non accostare l’adozione alle tecniche di potenziale genitorialità concepita a prescindere dall’identità filiale del soggetto che viene accolto. Pensare al figlio come al “prodotto” di un qualsiasi concepimento, esito di un combinato disposto di “materiale organico e genetico”, non ci appartiene; consideriamo le possibilità terapeutiche offerte dalla procreazione medicalmente assistita quali opportunità da iscrivere nella storia personale di una relazione coniugale, chiamata a misurarsi con la propria ipofertilità o sterilità, mentre riprende e ricerca, anche faticosamente, il senso di un desiderio che pensiamo non debba mai tradursi in dispotico e autoreferenziale processo; siamo infatti consapevoli della presenza tra i nostri interlocutori, acuti sostenitori del diritto di disporre della vita altrui, di una strana e curiosa combinata, sia nella “produzione” della vita che nella sua “interruzione”, quasi l’individuo debba rispondere solo a se stesso del proprio e altrui benessere.

 

Riteniamo che le questioni relative alla genitorialità, alla filialità, a come viene a costituirsi e costruirsi tale legame, al senso della generazione umana, siano decisamente laiche o se si preferisce, dal profilo civile, ancorché squisitamente cattoliche: se si ritiene la presenza del pensiero cattolico un problema, c’è solo da provare ad immaginare onestamente il mondo senza di questo per ricredersi, assumendo quantomeno un atteggiamento più rispettoso e meno canzonatorio.

 

Chissà chi avrà da accreditarsi e presso chi (curioso argomento tutto da decifrare, come il famoso canto della gallina) e chissà chi si nutre di contraddizioni: noi abbiamo scelto semplicemente di “accreditarci” presso i nostri figli come “mamme e papà per sempre” e siamo dedicati a tutti gli altri nostri “figli nel mondo” affinché non siano considerati figli di un Dio minore o di qualsiasi serie vogliate taggarli, sacrificabili sull’altare dell’individuo autoreferenziale (se questa è civiltà?). 

 

Gianmario Fogliazza

Centro Studi di Ai.Bi.