I tremila orfani di Calais sono tutti figli nostri

camera dei comuniFa discutere la decisione della Camera dei Comuni britannica di non bocciare l’emendamento, approvato invece dalla Camera dei Lord, alla legge sull’immigrazione per permettere a 3mila bambini siriani di trovare accoglienza in Gran Bretagna. Di seguito il parere della giornalista Deborah Dirani, espresso in questo editoriale, che riportiamo integralmente, pubblicato su “L’Huffington Post” mercoledì 27 aprile. 

 

Era una mattina di luglio di 5 anni fa quando una vecchia signora vestita di nero, seduta su un tappeto a gambe incrociate, mi spiegava il principio dell’umanità. Era povera, ma povera sul serio, questa vecchia signora: era una vedova, era una profuga ed era costretta a vivere, come tutto il suo popolo, della carità internazionale. Per casa aveva un cubo di fango e mattoni imbiancato a calce, per ricchezza aveva le sue figlie e le sue nipoti e tutti i bambini che le passavano vicino, che giocavano a nascondino sotto la sua Mahlifa e che lei afferrava al volo e si prendeva in braccio.

“Noi non abbiamo niente se non i nostri bambini”. E guardandoli, guardando quei nanetti che mi si avvicinavano incuriositi dal colore dei miei occhi e che mi saltavano in collo, senza paura, senza timore che io, una sconosciuta, potessi far loro del male, ho capito che quella gente, quel popolo che non aveva niente, in realtà aveva capito tutto.

Aveva capito che non c’è denaro a sufficienza che valga l’egoismo dell’isolamento. Aveva capito che nessuno diventa più povero se si mette a tavola un bambino non suo. Aveva capito che aiutare a crescere un bambino che non si è generato è l’atto più generoso e magnifico che possa capitare in una vita. Ora a Calais, affacciati a un Oceano, ci sono tremila orfani. Tremila bambini a cui una guerra ha tolto la sicurezza di una mamma e di un papà. Tremila bambini costretti a elemosinare la grazia di qualcuno che si prenda cura di loro. Perché sono piccoli, accidenti, e da soli non possono provvedere a se stessi. Sono piccoli e sono soli e sono esclusi, rifiutati. Sono i reietti di un’opulenza benestante. Sono la raccapricciante immagine dell’anoressia del cuore e della bulimia del cervello di chi ha dimenticato l’angoscia della guerra, il terrore della perdita, la solitudine dell’abbandono.

Quei tremila bambini sono l’evidenza della disumanità che si preoccupa di mantenersi salda nei propri diritti ed è incurante dei propri doveri. Perché, sì: è un dovere prendersi cura dei bambini. Di tutti i bambini: non importa il loro passaporto, la loro fede, il colore della loro pelle. I bambini sono di tutti, sono patrimonio condiviso da tutelare. Da tutelare contro l’orrore che riescono a far vivere loro gli adulti: quelli che gli tirano le bombe sulla casa, quelli che gli stuprano le madri e gli fucilano i padri. E quelli che si chiudono gli occhi davanti a tanto orrore e li lasciano lì, soli, a vivere il ricordo di un dolore infinito. Nessuna casa, nessuna famiglia, nessuna mano che li scuota nel sonno quando hanno gli incubi, nessun abbraccio che li avvolga quando hanno nostalgia del loro passato.

Che si arrangino: le strategie politiche della Brexit sono prioritarie rispetto a tremila orfani invadenti. Siamo arrivati a questo: a essere disposti a sacrificare il futuro dei bambini in favore del presente degli adulti. Abbiamo più di quanto ci serva per vivere ma abbiamo perso il senso della vita. Che tentiamo di essere immortali e non comprendiamo che la sola virgola di immortalità che ci è concessa è la possibilità di aiutare un bambino a crescere, di fare di lui un adulto sano e il più possibile felice. L’immortalità non è nei testamenti on line, nelle pagine Facebook che restano anche quando ce ne siamo andati a testimoniare, per chi ha voglia di passare da lì, che abbiamo vissuto, almeno per un po’. L’immortalità è nel cuore di chi abbiamo aiutato a vivere e manterrà nel cuore il ricordo del bene che ha ricevuto.

Ci sono tremila bambini che aspettano di rendere immortali tremila adulti, che se ne stanno a guardare le sponde di un Oceano e si chiedono se da quell’acqua arriverà qualcuno che si prenderà cura di loro. Non sanno niente di Brexit ed Europa, di politiche economiche e quote di immigrazione. Sanno solo cosa sia la paura e provano a imparare l’alfabeto della speranza. Ma hanno bisogno di qualcuno che gli insegni le lettere di quell’alfabeto, qualcuno che li prenda in braccio e li sollevi dalla sabbia in cui stanno seduti ad aspettare.

Qualcuno che abbia voglia di essere umano.