Il sostegno a distanza non è un detersivo da vendere. Vietare gli ingenti investimenti pubblicitari per rastrellare i sostenitori

Crisi del sostegno a distanza. Se ne è parlato il 25 agosto in apertura della Settimana delle famiglie di Ai.Bi. Il quadro delineato non è confortante: stanno sempre più diminuendo i sostenitori. D’altra parte è noto che le spese di solidarietà sono le prime ad essere tagliate.

Completa il quadro un altro dato di fatto: la corsa, scatenata negli ultimi tempi, per rastrellare sostenitori, facendo leva su investimenti pubblicitari sempre più ingenti: spot, réclame e messaggi promozionali in onda sugli spazi acquistati da radio e televisioni, inserzioni e acquisto di pagine sulla stampa, testimonial pagati dalle organizzazioni.

Vi sono organizzazioni, specie quelle che sono emanazioni delle grandi realtà estere, che hanno aperto in Italia sedi operative unicamente dedite alla raccolta fondi. Centinaia di dipendenti, unicamente dediti a questa mansione: raccogliere fondi e inviarli alle loro centrali operative per la gestione delle attività di sostegno a distanza.

Se vogliamo salvare il vero sostegno a distanza, quello promosso da organizzazioni non governative ben radicate nel tessuto locale, che si assumano la responsabilità in prima persona delle attività di sostegno a distanza, occorre vietare la possibilità di fare pubblicità su questa forma di aiuto. Il sostegno a distanza non può essere solo una raccolta fondi. Chi raccoglie, deve anche gestire in prima persona.

Occorre istituire il divieto di pagare la pubblicità utilizzando i fondi raccolti con i sostenitori  a distanza: il sostegno a distanza non è un prodotto né un detersivo con cui lavarsi la coscienza.