Le yazide fuggite dai campi dell’Isis che rifiutano i figli dello stupro

schiave yazideHuda, 12 anni, è stata venduta a Mosul e rivenduta a Raqqa, prima di riuscire a scappare in Turchia. Quell’esperienza l’ha resa muta e tremante come una foglia quando sente parlare arabo o vede un uomo con la “barba lunga”. Huda è una delle centinaia di donne yazide rapite e violentate dai jihadisti tra Iraq e Siria. Molte di loro sono rimaste incinte, ma hanno preferito abortire piuttosto che mettere al mondo i “figli dell’odio”.

È il caso di Hana, 25enne catturata ad agosto e fuggita a fine dicembre. Ora è a Dohuq, dove i medici le hanno detto che era incinta già da 3 mesi. “Non ci ho pensato sopra due volte – ammette – e ho abortito immediatamente, nonostante le possibili complicazioni mediche. L’uomo che mi ha violentata di più, tra altri 4, si chiamava originariamente Alexander, un kazako cristiano 37enne convertito all’Islam col nome di Abdullah. Non ci picchiava come invece in genere fanno gli uomini iracheni. Però diceva che voleva un figlio maschio da me per educare una nuova generazione di combattenti della guerra santa. Sono tanti a pensarla come lui tra i volontari stranieri di Isis”.

Se Hana è in salvo, pur tra tante sofferenze, sua sorella Adia è ancora dispersa. “I terroristi vivono in gruppo di 5 o 10 uomini – racconta ancora Hana – e si passano più volte le più belle tra noi. Adia piaceva a un certo Karim, che era il capo e se la teneva per se. Esigeva però che lei mostrasse piacere mentre la prendeva. Lei invece lo insultava. Allora lui la torturava. Ho visto che la puniva con scariche elettriche e la teneva con le mani legate dietro la schiena anche per 10 giorni”.

A quanto pare, i guerriglieri intendono creare una sorta di nuova “razza eletta” alla jihad servendosi delle schiave yazide. Per queste ultime, l’aborto è spesso, drammaticamente, il colmo della ribellione, l’estrema vendetta contro chi le ha violentate. “Io non sono rimasta incinta – spiega Fakria, 18 anni –, ma se fosse avvenuto, non avrei esitato a impiccarmi o tagliarmi le vene, come hanno fatto tante altre ragazze sin dai primi giorni in quell’inferno”.

Le schiavi sessuali dell’Isis sono per lo più giovani tra i 12 e i 25 anni. Il loro numero effettivo non è noto, ma si stima che il 90% di loro sia stato violentato. E in quella fascia d’età è plausibile pensare che tante possano essere rimaste incinte.

Ma anche per quelle che sono riuscite a scappare o sono stare “riscattate” dalle loro famiglie – il “prezzo” va dai 200 ai 2mila dollari a testa -, la libertà non coincide con la fine dei problemi. Alcune si sono suicidate dopo il loro ritorno, molte soffrono di incubi notturni, insonnia, solitudine, fobia da stress. Altre prigioniere, dopo essere state violentate, rinunciano all’idea di scappare, sapendo che, anche in caso di fuga, sarebbero state rinnegate dalle famiglie, dai mariti o dai fidanzati o addirittura temono di essere uccise per aver perduto la verginità.

Il dramma delle schiave yazide ricorda molto da vicino quello affrontato da migliaia di donne bosniache ai tempi della guerra dei Balcani. Attorno alla metà degli anni 90, furono tantissimi i bambini nati dalle violenze a cui i soldati serbi sottoponevano le donne bosniache. In quel caso, intervenne direttamente Giovanni Paolo II, chiedendo alle famiglie di rendersi disponibili ad adottare questi “figli dell’odio”. Una missione a cui non potette non aderire Amici dei Bambini che, nell’ambito del suo impegno in Bosnia Erzegovina, si schierò apertamente a favore dell’accoglienza dei piccoli bosniaci, che, se non avessero avuto la possibilità di essere adottati, avrebbero passato anni negli orfanotrofi o non sarebbero mai stati messi al mondo.

 

Fonte: Corriere della Sera