La migliore sostenibilità è l’adozione di un bambino abbandonato (1^ parte)

Una riflessione sulle possibili connessioni, narrative e sostanziali, tra sostenibilità e abbandono dei bambini. E sull’adozione come metafora estrema dell’umanità che si salva

Anni fa con Marcella Milito, cara amica, in uno dei nostri brainstorming abbiamo tentato di mettere insieme le nostre storie di vita, le mie competenze di ex cooperante e le sue di biologa e melissopalinologa (la disciplina scientifica che studia il polline presente nel miele n.d.r.) presso un istituto zooprofilattico. Abbiamo tentato di trovare possibili connessioni, narrative e sostanziali, tra il rischio di estinzione delle api e il tema dell’abbandono dei bambini.
Tale scambio di pensieri, immaginifico, lunare, allora fuori da ogni allocazione possibile, mi ha dato l’opportunità di guardare con occhi nuovi il tema dell’accoglienza familiare.
Era già accaduto in passato che decidessi di dare il titolo “le api, gli ulivi e l’uva” a un mini ciclo di lezioni universitarie sulle relazioni istituzionali, partendo proprio dalla mia storia, di vita e professionale, per parlare di ecosistema.
Dallo scambio con Marcella ho generato in me nuova consapevolezza.

Tutto è connesso

Il cambiamento climatico, le isole di plastica, l’estinzione di specie animali sono strettamente connessi al dramma dei bambini abbandonati. Tuttavia ancora oggi nei vari ambiti si tende a ragionare in maniera settoriale, senza tener conto dei legami relazionali forti esistenti, cercando, ognuno, di affermare che una battaglia sia più nobile di un’altra e che non esiste al mondo nulla di più importante che la propria missione.
Traduco in positivo citando l’enciclica Fratelli tutti di Papa Francesco.
San Francesco d’Assisi «ha ascoltato la voce di Dio, ha ascoltato la voce del povero, ha ascoltato la voce del malato, ha ascoltato la voce della natura. E tutto questo lo trasforma in uno stile di vita. Spero che il seme di San Francesco cresca in tanti cuori» (FT,48)
Il pensiero sistemico e la resilienza sono spesso i mantra della moderna intelligenza- la narrazione è colma di inviti a essere sistemici e resilienti, oltre che capaci di “generare impatto”. Ma dire, invocare, appellarsi alla resilienza, non basta; occorre fare. E prima ancora essere, testimoniare.
Tale coerenza implica la comprensione del mondo e l’accettazione umile di essere limitati e unici allo stesso tempo. Bisognosi gli uni degli altri, fiduciosi nell’abbondanza del Creato, compassionevoli verso gli altri e verso se stessi.

L’apicoltore padre che si prende cura delle api figlie e della loro unica mamma

Chiedo a Marcella il permesso di citarla in queste riflessioni e ben felice aggiunge: “Nel corso di tutti questi anni ogni tanto mi ritornava in mente il discorso che avevamo fatto dell’apicoltore “padre” che adottava come sue figlie le api e anche la loro unica mamma: l’ape regina. È effettivamente così perché un bravo apicoltore segue bene la famiglia delle api, la tiene lontana dalla mancanza di cibo e dalle malattie. Poi prende il loro prodotto, cioè il miele per uso umano, ma lascia sempre il miele per la nutrizione e il benessere delle api stesse.”
Certamente non potrei parlare delle api come farebbe Marcella. Posso però condividere un pensiero sul tema dell’abbandono. Il mio grandangolo visivo, dagli orfanotrofi mongoli ai bassi napoletani, mi porta a guardare le cose prima di tutto con la gratitudine verso la mia famiglia dove ho potuto sperimentare l’essere figlia.
La famiglia è un po’ come l’apicoltore che cura le api. Ma quale miele lascia dietro di sé? A chi lo lascia?
Tutti in generale dobbiamo affrontare il momento del passaggio da figli a orfani su questa terra.
Tutti, in quanto figli, possiamo comprendere la voracità del dolore che l’abbandono comporta.
Di che dolore e di chi parliamo ora?
Del dolore del bambino abbandonato o orfano, che non si può difendere e che viene mangiato dentro, minato nel suo senso di identità e appartenenza. Del Dolore di chi abbandona, restando vivo, mangiato dentro dal buio, avendo perso la sua linea di trasmissione e di contatto con la natura unica e rara della vita generata, la natura della genesi. Una natura misteriosa, fatta in parte di cellule, di organismi, di specie che si evolvono di generazione in generazione. Una natura in cui entrano in gioco elettroni, campi magnetici, coltan, fisica, chimica, mineralogia, biologia, tutto connesso con la coscienza, la spiritualità, l’anima, Dio.

L’adozione in tale groviglio di scambi cosa è?

Spesso si utilizza la metafora del kintsugi per mostrare quel filo prezioso d’oro con cui due genitori adottivi amorevoli tentano di riparare le emozioni del bimbo/coccio rotto. Ma, a ben guardare, l’adozione è anche una riparazione armonica dei genitori che, abbandonando, nella loro profonda miseria e sofferenza, compiono l’ultimo estremo gesto di fiducia verso il prossimo: “Ci sarà pur qualcuno che accoglierà nella propria tenda il figlio dello straniero…”
L’adozione diventa in questo caso la metafora estrema dell’umanità che si salva.

Marzia Masiello
Ufficio relazioni pubbliche e istituzionali di Ai.Bi.
[La seconda parte della riflessione di Marzia Masiello sull’Adozione verrà pubblicata martedì 15 agosto]