Il dramma del neonato soffocato dalla mamma. Perché ogni bambino che nasce è un “mio” figlio?

La terribile vicenda della mamma che, stremata, inavvertitamente soffoca suo figlio appena nato, ci fa riflettere ancora una volta sul vero significato dell’accoglienza e di cosa significhi lavorare affinché ogni essere umano che viene al mondo sia, prima di tutto, e per tutti, un figlio

Da ormai diversi anni la denatalità è un argomento di discussione: nella politica, nella società e, in particolare, su AiBiNews. Forse, però, nonostante le tante parole spese, non è chiaro il concetto di fondo da cui ogni discussione relativa a questo argomento dovrebbe partire: la “lotta alla denatalità” non è una questione di numeri o di statistiche. E non è nemmeno, alla base, una questione di incentivi, di aiuti, di politiche, di orientamenti… La lotta alla denatalità è prima di tutto una convinzione granitica e inderogabile: ogni bambino che viene al mondo va accolto, oggi più che mai, come il bene più prezioso di questa terra.
È questo quello in cui tutti noi dobbiamo riconoscerci.

Riconoscere che ogni bambino che nasce è “mio” figlio, affinché ogni bambino sia un figlio

Non è un caso che questa riflessione nasca all’indomani della diffusione della notizia di quella mamma che, all’ospedale Pertini di Roma, si è addormentata, stremata dopo il parto, e ha inavvertitamente soffocato il suo bambino appena nato. O meglio, queste sono le prime ricostruzioni relative a una vicenda sulla quale, come si dice, bisognerà fare chiarezza.
Ma, in questo momento, la chiarezza sulla dinamica precisa non è il centro del problema. Come non lo è il rimpallo di accuse su chi doveva controllare cosa, sui protocolli, sulla mancanza di personale…
Il centro della riflessione è e deve essere quel bambino, nel quale ci dobbiamo riconoscere tutti noi. Perché “lotta alla denatalità” vuol dire innanzitutto che ogni bambino che nasce è “mio” figlio. Vuol dire che non possiamo permetterci di lasciare dei bambini e dei ragazzi senza un padre e una madre. Così come non possiamo permetterci di lasciare che una madre e un padre rimangano senza un figlio.
L’accoglienza, che è il principio su cui Ai.Bi. fonda la propria esistenza e il proprio operare, è esattamente questo: riconoscere che ogni bambino che nasce nel mondo è “un mio figlio”, da cui deriva la convinzione che ogni bambino che nasce debba essere un figlio.
Può aiutare a riflettere su tutto questo il pensiero di un filosofo boemo, forse poco noto, che all’accoglienza ha dedicato una parte consistente della sua riflessione. Jan Patocka, questo il suo nome, sosteneva che l’accettazione dell’altro, mediata proprio dall’accoglienza, è il principio stesso di un movimento vitale che vada oltre la semplice fisicità: è nell’accoglienza dell’altro la dimora originaria dell’uomo, il suo stesso ancoraggio all’esistenza. E se questa accoglienza si esprime, primariamente, nel legame tra una mamma e il suo bambino appena nato, ne consegue che il riflesso di quello stesso legame è ciò che ognuno di noi deve cercare in ogni bambino che nasce. Magari ricordando, come ha scritto qualcuno relativamente alla terribile vicenda di cronaca da cui la riflessione è partita, che quanto nasce un bambino nasce anche una mamma. Che va accolta!