Se una campagna diffamatoria colpisce una Ong, i danni subiti dai beneficiari, che nulla hanno a che vedere con il fatto narrato, sono enormi: ecco perché “l’Espresso” deve pagare 20 milioni ad Ai.Bi.

giudiceIl 17 novembre scorso, il giornale online “OSSIGENO per l’informazione” – Osservatorio sui giornalisti minacciati in Italia – ha pubblicato un articolo sul caso Ai.Bi./L’Espresso, criticando la cifra richiesta dall’Associazione per il risarcimento dei danni da diffamazione subiti, affermando che somme così elevate non sono mai liquidate dai tribunali italiani e lamentando i danni che le cause giudiziarie con richieste di questa entità producono alle testate giornalistiche. Per comprendere che, invece, quella di Ai.Bi. non è una mera richiesta dalla “dirompente forza intimidatrice”, ma un’azione per ottenere giustizia per i danni prodotti, basta porsi alcune semplici domande.

Quali conseguenze determina un articolo, o peggio una serie di articoli, di giornale circa la commissione di reati nell’attività di un ente senza scopo di lucro prima ancora che un giudice si pronunci? Nel merito ricordiamo che a oggi sono state presentate da Ai.Bi. diverse azioni legali contro “l’Espresso” e Gatti – come più sotto specificato -, mentre a carico dell’Associazione non risulta a oggi che sia in essere alcuna azione né amministrativa né tanto meno penale.

E i riflessi sui beneficiari dei progetti delle organizzazioni del terzo settore?

 

Da quel che leggiamo ormai da mesi, il giornalista Fabrizio Gatti (per “l’Espresso”, ma anche in proprio attraverso vari social network) ha scritto numerosi articoli attribuendo ad Ai.Bi. Associazione Amici dei Bambini una serie di reati penali nell’ambito di procedure di adozione in Repubblica Democratica del Congo, rispetto alle quali ha riportato di gravi irregolarità e perfino di traffico di minori e varie violenze. Contro tale serie di articoli definiti “inchiesta” l’Associazione ha presentato più di una querela per diffamazione nei confronti del settimanale “l’Espresso”, del relativo direttore e ovviamente anche del giornalista Fabrizio Gatti. Inoltre il 28 ottobre 2016 l’associazione ha presentato al Tribunale Civile di Roma una richiesta di risarcimento danni di 20 milioni di euro (15 per danni patrimoniali e 5 per danni non patrimoniali) sempre nei confronti del settimanale, del suo responsabile e del giornalista.

Gli addebiti mossi a carico dell’Associazione Ai.Bi. sono di quelli da fare paura. Ma la domanda è: queste accuse mosse prima di un accertamento delle competenti autorità fanno veramente paura?

 

Se valesse sempre il principio “nel dubbio meglio accusare” sarebbe già di per sé allarmante, anche per una associazione come Ai.Bi. che da oltre trent’anni ha come principale scopo proprio la protezione dei diritti dell’infanzia, perché così l’Associazione si troverebbe – come infatti si trova – a dovere pagare un prezzo enorme che consiste negli effetti che le notizie diffamanti determinano sui donatori i quali rinunciano a sostenere progetti in corso o già approvati. Ma v’è di più: qualunque addebito di responsabilità penale, in questo caso nel campo dei diritti dell’infanzia che rappresenta l’obiettivo stesso dell’associazione secondo Statuto, dà l’avvio a un incalcolabile danno consistente nella chiusura di ogni possibilità di stringere legami con nuovi sostenitori dal momento che il nome dell’Associazione, anche solo in via potenziale, è infangato da una serie di notizie inoltrate – nel dubbio – a mezzo stampa, e soprattutto nei social network. E, nel dubbio, persone e aziende chiudono i rubinetti della solidarietà. Se bastasse una pubblica accusa per condannare l’accusato come responsabile, sarebbe quindi di per sé allarmante.

 

Ma una accusa di responsabilità penale così grave, anche se solo potenziale, come quella lanciata dal Gatti secondo cui Ai.Bi. avrebbe realizzato o contributo a realizzare traffico di minori e altro, laddove scagliata senza scrupoli sui media, pur essendo oggi una condizione, una situazione o una circostanza caratterizzata da uno stato di incertezza, determina già oggi due conseguenze per l’associazione senza scopo di lucro. Innanzitutto l’utilizzo di risorse umane ed economiche per difendersi non previste e non considerate nel bilancio a tale scopo, e quindi sottratte alla realizzazione di progetti. Inoltre il venir meno di donazioni e finanziamenti invece previsti per la realizzazione di opere di solidarietà sociale.

La condizione, situazione o circostanza con esito pendente è già in questo modo esistente in un momento precedente alle future sentenze. E’ come anticipare la condanna quando invece solo un accertamento da parte delle competenti autorità – e non certo uno o più giornalisti – potrebbe dichiarare se effettivamente vi siano state attività illecite o perfino gravissimi reati. Nel merito ricordiamo come le Autorità Giudiziarie  del Congo abbiano indirizzato proprio all’Espresso e a Gatti, nello scorso agosto, due lettere  nelle quali venivano smentite nettamente e puntualmente le assurde accuse lanciate nei confronti di Ai.Bi.: ma il settimanale si è ben guardato di riportarne  anche solo poche righe.

Si consideri anche quanti anni dura una causa civile per diffamazione e quindi per quanti anni dovrà ancora pesare sull’immagine dell’Associazione il fantasma del compimento di reati dichiarato dalla stampa solo in via potenziale.

Va anche detto che le Organizzazioni che operano senza finalità di lucro, e che hanno come obiettivo la realizzazione di progetti sociali, cioè a favore della società (in particolare dei soggetti più fragili e vulnerabili), contribuiscono alla realizzazione del welfare, sia in Italia che all’estero, con i progetti di cooperazione. Si tratta di attività che, a differenza di quanto avviene nel “profit”, dove l’azienda può distribuire gli utili in denaro ai propri soci, sono svolte esclusivamente a beneficio di terzi estranei all’associazione. I terzi beneficiari sono identificati nello Statuto di ogni ente. Gli scopi di Ai.Bi. sono indicati nell’articolo 3 dello Statuto.

 

I progetti di Ai.Bi. (con i quali le adozioni internazionali non hanno nulla a che vedere), sono sempre indirizzati a bambini e famiglie specifici. Come nel caso del progetto per cui l’Unicef aveva stabilito un finanziamento che avrebbe dovuto essere realizzato in Siria attraverso una associazione locale, mirando al rafforzamento delle capacità di protezione per i minori, in particolare all’interno di 39 scuole dove erano previste attività di creazione di un sistema di supporto psico-sociale dei bambini e attività educative.

E’ evidente che in questi casi il danno non è solo e semplicemente determinato dal “lucro cessante”, cioè dal mancato introito del denaro previsto come quota di finanziamento per il progetto, ma dai benefici diretti e indiretti che le attività sociali avrebbero determinano nei beneficiari. E tali benefici, nel caso dei bambini di Aleppo, non si verificheranno.
E anche ogni euro in meno ricevuto in donazione per il clima di terrore diffuso da articoli giornalistici diffamatori non rappresenta semplicemente un euro in meno, ma i mancati interventi, i mancati progetti e, in definitiva, i mancati benefici che le associazioni senza scopo di lucro perseguono. A questo deve aggiungersi quanto costa difendersi da accuse di rilevanza sia penale che civile di questa entità. E quanta energia l’associazione impiega per ristabilire fiducia nei propri, buoni, progetti, sottraendola alla realizzazione dei progetti stessi.

Si tratta di danni letteralmente incalcolabili.

 

Anche se poi, dopo qualche anno, viene accertata la diffamazione compiuta dal giornalista e l’innocenza del diffamato, resta comunque la dirompente forza distruttiva di una pubblicazione di tal fatta, da sola sufficiente ad avere danneggiato per sempre la vita di singole persone specifiche: i beneficiari dei progetti di solidarietà sociale che ogni ONLUS realizza e che non hanno potuto essere realizzati perché l’onda della diffamazione è così potente da fare interrompere, se non cessare, i contributi dei singoli donatori che contribuivano ai progetti, così da un giorno all’altro.

Tutto questo per articoli di giornale fatti passare per sentenze.

I bambini di Aleppo e tutti gli altri, potenziali beneficiari dei progetti che gli articoli di Fabrizio Gatti hanno fatto cessare o mai iniziare, ringraziano.