Riportare un bambino adottato in istituto è un dramma infinito. Lo racconto in un film

Pablo Larraín nel suo nuovo film Ema, in uscita nelle sale il 2 settembre racconta il mondo dell’adozione. Il regista: “È un atto incredibile di generosità”.

Il 2 settembre al cinema esce il film Ema, del regista cileno Pablo Larraín, presentato in concorso alla Mostra del cinema di Venezia lo scorso anno.

Il regista è lo stesso di pellicole dal successo internazionale come Jackie, Il Club, Neruda, ma l’argomento totalmente differente, perché tocca il tema della famiglia, della maternità e dell’adozione.

Ema (Mariana Di Girolamo) protagonista del film, è una ballerina di reggaeton in una compagnia di danza sperimentale diretta da suo marito, il coreografo Gastón (Gael García Bernal). La coppia ha un figlio, Polo, (Cristiàn Suàrez) un bambino problematico di 7 anni che i due hanno adottato.

Dopo l’ennesimo atto di ribellione di Polo, in cui il piccolo provoca un incendio, i genitori adottivi decidono di gettare la spugna e riportarlo in orfanotrofio. Da questo gesto prenderà il via lo sgretolamento del rapporto tra Ema e Gaston, mentre la donna, consumata dal senso di colpa e dal desiderio di maternità, deciderà di farà qualsiasi cosa per riprendere suo figlio.

Larraín, in questa pellicola fornisce uno sguardo sui giovani di oggi, sul tema della maternità ma soprattutto sul meraviglioso istituto dell’adozione che il regista, padre di due figli biologici, ritiene essere un atto di incredibile generosità, ma anche un percorso complesso a causa delle numerose formalità burocratiche.

Il regista, in Ema, punta i riflettori sul mondo poco conosciuto di tutti quei bambini che, al nascere di problemi e difficoltà, sono “riportati indietro” dalle famiglie adottive, come fossero oggetti senza valore, ma anche sul senso di colpa che questo atto genera nei genitori che hanno compiuto il gesto e sul forte legame materno che l’adozione di un figlio realizza in una donna, assoluto e inscindibile come il legame che nasce con un figlio biologico.

Pochi sanno – racconta il regista in un’intervista rilasciata al Venerdì di Repubblica – che un certo numero di adozioni non va a buon fine. In Cile tra il 2010 e il 2015 ne sono fallite ben 53 e il processo di reintroduzione di un minore negli istituti è dolorosissimo, perché si prende un bambino che già è stato abbandonato dalla madre o è diventato orfano, gli si dà una famiglia e un nome, e poi glieli si toglie di nuovo”.