Torino: cosa vuol dire essere “famiglia-comunità”? Un affido moltiplicato per quattro

famigliaSono otto anni che Beatrice e Michele accolgono nella loro casa bambini in difficoltà. Quando il loro unico figlio aveva ormai 18 anni, ed era in grado di rapportarsi con serenità ai ‘fratelli’ che popolavano la casa, papà e mamma C. hanno deciso di trasformare la loro abitazione in una Famiglia comunità.

Una realtà d’accoglienza avviata per ora solo in Piemonte. Famiglie affidatarie allargate, ovvero un porto sicuro per bambini con alle spalle famiglie problematiche con genitori che operano senza l’ausilio di educatori o il supporto di cooperative e associazioni. Solo un papà e una mamma che intervengono per donare attenzioni, cure e amore a figli che saranno tali, per un tempo che non si sa mai quanto durerà.

Adesso in casa C. di minori ce ne sono quattro: una quasi 18enne; una 13enne e due fratellini di 11 e 9 anni. Quest’ultimi vivono in casa da sette anni. Facendo la spola ogni fine settimana con la casa della loro mamma biologica.

Beatrice è soddisfatta del lavoro svolto: «Sono due ragazzi intelligentissimi, e temprati da una situazione non facile. Perché vivere per sette anni tra due modelli di famiglia differenti rende instabili i bambini. E invece in questo caso, siamo riusciti a creare un buon rapporto tra i due nuclei familiari». La chiave del successo è una parola che Beatrice non pronuncia, ma è nella filigrana della sua storia: umiltà. Perché a chiederle come si fa, lei invece risponde che la buona riuscita di un affido sta nella costanza di «rimettersi in gioco ogni volta e accettare di sottoporsi- insieme ai genitori biologici- a momenti di verifica con la psicologa, per imparare a muoversi all’unisono nell’interesse esclusivo dei bambini».

Il perché della loro scelta, Beatrice lo racconta con la leggerezza di chi, anima e corpo dentro la missione, quasi non si accorge della straordinarietà che compie tutti i giorni. Dal 1996 insieme a suo marito, si sono fatti carico di una ventina di bambini, da zero a diciotto anni. Fino a un massimo di cinque per volta. Li passa in rassegna, Beatrice. E non cela la difficoltà di separarsi da bambini che le sono entrati nel cuore.

Come la neonata, figlia di tossicodipendenti, rimasta con loro lungo tutto il primo anno di vita. Confida Beatrice: «Con lei il distacco è stato durissimo. Ritengo che i neonati dovrebbero essere lasciati in affido il meno possibile, e poi o reinseriti nelle loro famiglie oppure dati in adozione. Ma subito. E invece non passa mai meno di un anno. L’attaccamento reciproco è fortissimo e si rischia davvero di crollare emotivamente».

Con voce pacata Beatrice, ex assistente sociale, insiste: «E’ fondamentale imparare a vivere il distacco, anche se fa male ogni volta. E per quanta esperienza uno accumuli, non arriva mai preparato a quel momento». Ma nonostante la sofferenza, racconta Beatrice, quell’affido resta tra i cammei della loro storia d’accoglienza. Perché l’abbraccio di Beatrice e Michele è stato sostituito da quello di due genitori adottivi.

A chiederle come convincerebbe un’altra famiglia ad aprirsi all’accoglienza, questa mamma per vocazione, risponde sicura: «L’affido è un atto d’amore senza ritorno. Per me è stata quasi una scelta ‘ereditata’, visto che mia madre è stata presa in affido da una vicina di casa e quell’estranea, per me era semplicemente mia nonna. Così direi di prendere un po’ di coraggio e follia e lanciarsi in quest’avventura che regala prima di tutto tanto a noi adulti».