«Sette mesi in Kenya per adottare nostro figlio, ma all’Ambasciata italiana non interessa granché!»

Mariolina e Claudio, di 41 e 39 anni, medici sassaresi, appena rientrati dal Kenya assieme a un fagottino di 2 anni, che chiameremo con il nome di Danny. Un viaggio meravigliosamente felice, se non fosse per un dettaglio. Sono atterrati nella capitale Nairobi il 9 maggio scorso.

Sette mesi in Kenya. «Non è andato storto niente dal punto di vista della procedura di adozione – racconta Claudio –. Dopo una settimana dall’incontro, secondo il corso della legge kenyota, Danny ci è stato dato in affidamento pre-adottivo. Sfortuna ha voluto che questa scadenza sia arrivata verso agosto, quando i Tribunali in Kenya erano chiusi».

«Ci viene dato appuntamento davanti al giudice – continua Claudio – che ha richiesto, come da prassi, una relazione al Children Department, notoriamente lento nell’emissione dei documenti. In seconda udienza (e siamo arrivati al 25 di novembre) la nostra stella ha brillato: visto che eravamo lì da maggio, il giudice ci ha riconvocati in terza udienza per l’emissione della sentenza, facendoci risparmiare altra perdita di tempo. Almeno, il tempo sprecato in un mese e mezzo durante la chiusura in estate è stato recuperato poi».

Chi li ha fatti sentire abbandonati è stata l’Ambasciata italiana: «Proprio chi doveva tutelarci, invece ci ha fatto problemi», riprende Claudio. «Ci aspettavamo un atteggiamento diverso, il bambino era stato ormai adottato e aveva bisogno di un titolo di viaggio provvisorio».

È andata così. Claudio e Mariolina si sono presentati presso l’Ambasciata. «Anche un’altra coppia si è presentata contemporaneamente a noi, già provvista di biglietto e documenti, ed è stata fatta rimpatriare senza problemi. Per noi invece la partita si è allungata una volta ancora: ci è stato chiesto di produrre una documentazione riguardante il bambino in forma di un certificato di nascita, corredato da fotografia. Il caso è scoppiato allo scoprire che in Kenya non esiste un documento rilasciato dall’autorità locale, con la foto del bambino – commenta Claudio –. Serve solo il passaporto. Questa stranezza è stata rimarcata due volte all’Ufficio Visti, dove prima hanno ammesso l’errore: “Abbiamo sbagliato, ce ne assumiamo la responsabilità”, poi sono caduti dalla nuvole. Pura burocrazia».

Claudio lavora da medico in ospedale, sua moglie è pediatra e libera professionista. Non sono andati incontro a problemi sul lavoro, la lunga permanenza era stata messa in conto. Ma Claudio ha dovuto incrementare la sua aspettativa e sono arrivati entrambi al limite delle possibilità di assenza. «Ma si sa che l’adozione in Kenya è questione di mesi», sdrammatizza. «Adottare è stato bellissimo. Lo rifaremmo. C’è spazio per una seconda volta, sì».

Claudio e Mariolina informano che Danny sta bene, è felice, si è ambientato a perfezione. «Ha vissuto in Istituto praticamente dalla nascita. Ha fatto un po’ di ospedale, poi subito nella struttura – termina Claudio –. Della sua storia non si sa assolutamente niente. È stato trovato davanti alla stazione di polizia a Kabete, presso Nairobi. Su di lui sono state avviate le dovute ricerche, non si è mai saputo nulla». Ora ha una nuova famiglia, che potrà raccontargli approfonditamente del suo paese natale, il Kenya, dove il mercato della frutta si fa nel fango, su bancarelle di legno. E dove la propria ambasciata, in tutta apparenza, rende più difficile la vita ai connazionali.