«Se l’avessi partorita io, non l’avrei sentita così mia». Storia di Juliette, una figlia dell’adozione

BARI – «Sapevamo che la nostra esperienza di adozione sarebbe stata intensa: ma lo è stata più di quanto ci aspettassimo. Per questo la nostra si può definire un’esperienza straordinaria».

Decidiamo di non interromperla. Ascoltiamo fedelmente Genny e tutto quello che ha da svelare, senza fare domande; senza perdere una parola di quanto esce dalla sua bocca di 43enne mamma adottiva, rientrata dall’Africa con Roberto, suo sposo.

«La situazione in Congo era difficile: è una situazione molto diversa dalla nostra, ma siamo stati aiutati a portare quanta più parte del Congo potevamo nella nostra famiglia, per aiutare nostra figlia a mantenere il ricordo della terra che le ha dato i natali.

«Un’esperienza intensa. C’è una doppia valenza in questa parola: intensa è stata sia la realtà congolese, che immaginavamo turbolenta, sia l’incontro con la bambina, l’emozione di vedere quanto lei ci stesse aspettando.

«Lei è Juliette, ha 9 anni. Lei è, la definisco così, una bambina che ha aspettato molto, e che ha aspettato troppo. Si è abbandonata subito a noi come una neonata tra le braccia della madre. All’orfanotrofio, non abbiamo neanche avuto il tempo di incontrare i referenti che lei ci ha riconosciuti subito e ci ha buttato le braccia al collo. Era l’11 novembre. È stato un riconoscerci. Sentivamo già questa bambina come nostra. Credo che se l’avessi partorita io, con la mia carne, non l’avrei sentita così mia.

«Juliette appartiene a noi. È la conferma vivente, fortissima, che aspettava proprio noi. Quando abbiamo individuato il suo profilo sullo spazio Figli in Attesa sul sito di Ai.Bi., qualcosa è scattato dentro di noi che ci ha fatto dire: è lei! Se fosse possibile, invitiamo tutte le coppie a guardare su questo spazio che per noi è stato fondamentale».

Chiediamo brevemente a Genny il racconto dei loro primi giorni insieme. «Lei si è affidata subito. Parla due lingue diverse dalla nostra, eppure non abbiamo avuto nessun problema di comunicazione, perché abbiamo iniziato a comunicare in via fisica. È stata prima di tutto una conoscenza corporea. Come fanno i neonati.

«Mi chiede già di andare a scuola, di cantare nel coro in chiesa. Vorrei fare un appello, a chi crede che le bambine di 9 anni siano troppo grandi, già cresciute, che abbiano già vissuto certe fasi della vita. No: Juliette aspettava di vivere con una famiglia l’infanzia che non ha avuto. Aspettava di essere finalmente bambina. C’è un tale sogno e bisogno di infanzia, in questi bambini… Inizia ad avere degli atteggiamenti che avrebbe dovuto avere anni fa. In orfanotrofio, le davano da accudire altri bambini più piccoli, ora è lei che chiede di essere piccola. Ed è giusto.

«Le dico una cosa che a me ha toccato moltissimo. La seconda sera che era con noi, dormivamo insieme, ha fatto un gesto. Ha preso la mia mano, la mano di mio marito, e le ha intrecciate insieme. Poi vi ha infilato la sua mano in mezzo. E ha detto: famiglia. E lei adesso è qui, che mi abbraccia e mi bacia». Ed è in questo momento che sentiamo apparire, vicino a Genny, un’altra voce. Fresca, rotonda. La voce di una figlia.