Bambina cristiana affidata a musulmani. Cristina e Tommaso (coppia affidataria Ai.Bi.) “L’amore per i figli non ha religione”

La storia della bambina di 5 anni, battezzata, affidata dai servizi sociali a una famiglia musulmana praticante che l’avrebbero tolto la croce che portava al collo e le vieterebbero di consumare carne di maiale, ha fatto in poche ore il giro del mondo. E suscitato confronti e riflessioni anche da parte di chi ha vissuto l’esperienza del’affido. Come Cristina e Tommaso, coppia affidataria di Ai.Bi intervistati da Elisa Marioni nell’articolo pubblicato da LetteraDonna che riportiamo nella sua versione integrale.

L’intervista alla famiglia cristiana che ha avuto in affidamento Amir, musulmana. Una situazione simile a quella della bambina di Londra di cui si è parlato tanto negli ultimi giorni.

Colore della pelle diverso, lingua diversa, spesso anche religione diversa. Sono solo alcune delle questioni che una famiglia può trovarsi ad affrontare quando arriva a casa un bambino in affido. Eppure, nonostante le difficoltà iniziali e gli episodi di mancata integrazione, come quello avvenuto a Londra e riportato in questi giorni dai giornali, siamo circondati da esempi che dimostrano che pur appartenendo a religioni diverse, la convivenza può essere serena. E che anzi, spesso la coesistenza di più culture non è che un modo per arricchirsi vicendevolmente e approfondire la conoscenza reciproca. Lo testimonia ‘Ai.Bi. – amici dei bambini’, una delle più grandi associazioni italiane che combattono l’emergenza dell’abbandono gestendo affidi ed adozioni, che ha visto tanti genitori prendersi cura di bambini e ragazzi con un background culturale molto lontano dal proprio. Tra questi ci sono Cristina e Tommaso, cattolici praticanti, che, dopo anni di affidi, hanno aperto una casa famiglia, dove ospitano oggi cinque bambini. Amir (nome di fantasia), bambino africano musulmano, ha vissuto con loro dai nove agli undici anni e il rapporto che si è creato in quel periodo (e che continua tuttora) è ricco di episodi che Cristina ricorda con commozione.

DOMANDA: Qual è la storia di Amir?

RISPOSTA: Sua madre veniva picchiata dal marito e per questo era caduta in depressione. Quando si è resa conto che anche suo figlio era in pericolo ha chiesto aiuto. I servizi hanno collocato il bambino in comunità e dopo qualche tempo, dopo esser passato per una famiglia che però non era pronta a gestire le sue problematiche, è arrivato da noi. La collaborazione è stata magnifica. Abbiamo accolto anche la sua mamma, da cui poi è tornato. Si è creato con loro un rapporto speciale: ci frequentiamo ancora oggi.

D: Quali difficoltà si trova ad affrontare una famiglia cristiana che per un periodo cresce un bambino musulmano?

R: Nel caso nostro non molte, perché siamo abituati a informarci subito sulla religione e sulle abitudini dei bambini, per farli sentire a casa loro. Amir era stato cresciuto da una madre musulmana molto praticante ed era giusto portare avanti quel tipo di educazione. Evitavamo di mangiare maiale quando lui era in casa, ci siamo documentati sull’Islam e spesso andavo ad acquistare la carne in un negozio per musulmani, in modo che potesse mangiarla anche lui. A tavola, ad esempio, noi diciamo la preghiera del ringraziamento per il cibo: quando c’era Amir si ringraziava prima Dio e poi Allah, che per noi in fondo è la stessa cosa.

D: Ci sono delle abitudini difficilmente conciliabili? In questo caso come avete gestito la situazione?

R: Il fatto che noi andiamo la domenica a messa, per esempio. Di solito diciamo al servizio sociale di chiedere alla famiglia di origine se ha piacere o meno che il bambino venga con noi. Se i genitori naturali preferiscono di no, facciamo i turni. Magari io vado di mattina e mio marito va di sera, mentre l’altro sta a casa con il bambino che non può venire. Nel caso di Amir, lui veniva in chiesa con noi e anche all’oratorio, ma solo perché per sua madre non era un problema.

D: Potrebbe capitare anche in Italia ciò che è successo a Londra, dove una bambina cristiana è stata affidata a una famiglia di musulmani che non le permetteva di seguire le sue abitudini

R: Sì, è questione di apertura mentale: o ce l’hai o non ce l’hai. Ma credo accada molto raramente. Noi abbiamo fatto molti corsi d’affido e ci è sempre stato spiegato che al primo posto viene il rispetto della cultura della famiglia d’origine. Nel caso di Amir siamo stati noi a chiedere alla madre cosa potevamo fare e cosa no. Dovrebbe essere uno dei presupposti dell’affido, ma non sempre ci sono controlli, soprattutto nelle situazioni d’emergenza. Bisogna però ricordare sempre che questi bambini i genitori ce li hanno: noi siamo solo d’aiuto alla famiglia. Se ci vengono fatte richieste che vanno contro la nostra religione o che ci sembrano estremiste, possiamo sempre dire «no» a quel progetto.

D: Avete mai ricevuto interferenze da parte della famiglia d’origine?

R: A noi in tanti anni non è mai capitato di avere una chiusura da parte dei genitori naturali. La madre di Amir era molto aperta: è venuta anche con noi a festeggiare il Natale, nel periodo in cui ci frequentavamo per iniziare il riavvicinamento. Ovviamente al bambino è stata presentata soltanto la parte ‘pagana’ della festa, quindi Babbo Natale e i doni. Una volta a settimana cerchiamo di mangiare anche il cibo del Paese d’origine dei ragazzi che abbiamo accolto. Dico sempre che non riesco ad andare nel mondo ma è il mondo che viene da me.

D: Vivere con una famiglia di un’altra religione può portare ad allontanarsi dalla propria?

R: Secondo me no. Arricchisce noi e arricchisce loro. Noi crediamo nel nostro Dio, dove sei vissuto tu magari si chiama Allah, ma è lo stesso. Nel Corano e nella Bibbia ci sono tantissimi punti in comune. Questo lo diceva anche la madre di Amir e la collaborazione reciproca l’ha portata a fidarsi e a venirci incontro. Ricordo con particolare affetto un episodio: durante il periodo in cui è stato con noi, è morta mia madre, che era diventata un po’ anche la sua nonna e lui voleva venire al funerale. Abbiamo contattato la mamma, che ha acconsentito a farlo partecipare alla celebrazione cristiana, in virtù del rapporto che aveva con lei.