Don Maurizio Chiodi: “Come si accoglie un bambino abbandonato? Con l’abbraccio di Gesù. L’adozione diventa così un atto di vera giustizia”

chiodi-350x200“Chi accoglie solo uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato”. Questo versetto del Vangelo di Marco (Mc 9,37) è una delle principali fonti della spiritualità di Amici dei Bambini. La XXIII Settimana di formazione e studi delle associazioni Ai.Bi e “La Pietra Scartata” si è conclusa con la Lectio Divina di don Maurizio Chiodi, assistente spirituale di quest’ultima. Una riflessione fondata sul tema che ha ispirato tutta la settimana di Gabicce: l’accoglienza giusta.

 

Don Maurizio, che cos’è l’accoglienza giusta e che cosa vuol dire “accogliere nel nome di Gesù”?

Le parole di Gesù citate da Marco nel brano di Vangelo letto oggi (Mc 9,30-37) ci ispirano 2 domande. La prima: “Come si  accoglie?” Gesù ci dà un esempio straordianario: Egli accoglie i bambini con un gesto concreto, l’abbraccio, un atto d’amore e di salvezza che dona mentre riceve. La seconda: “Chi è il bambino?” Il bambino è il modello di chi è piccolo, povero, indifeso, in generale chi è ultimo. Gesù vuol dirci che se siamo capaci di accogliere gli ultimi, allora sappiamo farlo con chiunque. Ma questi piccoli dobbiamo saperli riconoscere in ogni momento della nostra vita. Per le famiglie adottive ciò vuol dire aprire la propria casa a un piccolo figlio che è stato abbandonato. Gesù ci dice di farlo nel Suo nome. Un’espressione che ha molteplici significati: può voler dire “come ho fatto io”, o “perché appartiene a me”, oppure anche “perché accogliendo il piccolo accogli me”. Nello stesso tempo, Gesù si identifica e si distingue dal piccolo: a noi chiede di accogliere l’ultimo, il piccolo, con tutta la concretezza legata alla sua fragilità e al dramma della sua storia, quella ferita dell’abbandono che ha segnato la sua identità. L’accoglienza non è un atto di pietismo, ma di giustizia che restituisce al bambino abbandonato la sua dignità di figlio, senza in realtà dargli nulla, ma semplicemente riconoscendogli quella dignità. Quando noi accogliamo un bambino abbandonato, accogliamo Gesù che si è fatto piccolo Egli stesso. C’è sempre uno stupore nel riconoscere il volto di Cristo in quello dei piccoli. Il compito del cristiano è quello di testimoniare questo dono, che è per tutti la prova del fatto che Dio si è identificato con gli ultimi.

 

Il Vangelo sottolinea le reazioni di incomprensione e di timore da parte dei discepoli alle parole di Gesù. Si tratta di un’incomprensione profonda, esistenziale: i discepoli faticano ad accogliere la Parola di Gesù. Quanto è difficile oggi comprendere il grido di dolore del bambino abbandonato?

L’accoglienza di questo grido di dolore nasce da un appello. Per riconoscerlo, bisogna avere una famiglia accogliente. Oggi la difficoltà è legata all’individualismo, alla preoccupazione di sé, al fatto che ci si dimentichi che è nelle relazioni di reciprocità che si trova la strada per il compimento di quel desiderio di felicità che ci caratterizza come uomini. Un’altra difficoltà è legata alla paura: il timore nei confronti della violenza e del tradimento che hanno segnato la storia del bambino abbandonato.

 

Di fronte all’incomprensione dei suoi, è Gesù che fa il primo passo. Il bambino abbandonato però non può fare il primo passo. Chi può farlo per lui?

Il bambino è in condizioni di estrema fragilità nella sua solitudine. Il primo passo è quello di rispondere a questo dolore non detto. Il figlio, da parte sua, deve poi accettare questo primo passo, deve accettare l’accoglienza . Questo può essere un processo lungo e difficile, ma anche quando sembra che il figlio adottivo rifiuti i suoi nuovi genitori, in realtà sta chiedendo loro di essere i  suoi mamma e papà.

 

Nel brano del Vangelo di Marco, Gesù prende un bambino e lo mette in mezzo al gruppo dei suoi discepoli. Perché oggi non si mette quasi mai il bambino al centro dell’attenzione del mondo?

Anche in questo caso il bambino simboleggia il fragile. Un mondo a misura di bambino non è un mondo infantile, anzi: è una realtà di relazioni, in cui diventiamo capaci di accogliere l’altro per quello che è, non per quello che vorremmo.