Dal Congo: «Siamo insieme da 10 giorni e sembra un miracolo che sia così». Intervista a una neo-madre adottiva

MILANO – Pubblichiamo l’intervista a Cristina e Giovanni, di 45 anni, da 12 anni genitori biologici di due figli e da pochi giorni madre e padre adottivi del piccolo J., un bambino congolese. Appena rientrata da Kinshasa, capitale lacerata dai disordini elettorali – dove l’ex-presidente della Repubblica Democratica minaccia la ritorsione armata sul suo rivale vincente –, Cristina  condivide gentilmente la sua esperienza, offerta con un misto di pudore e meraviglia. Il suo sogno di moglie e madre biologica si è realizzato: la sua famiglia ha aperto le porte a chi una famiglia l’aveva perduta.

Quando inizia la vostra storia adottiva, Cristina?
«Siamo partiti il 10 novembre per Kinshasa, e siamo rientrati il 25, con nostro figlio, J., ufficialmente di 5 anni. Sui suoi documenti è stata segnata la data di nascita del 2006, in realtà è più grandicello, ne ha già 7».
Da quanto l’aspettavate?
«Abbiamo presentato domanda al Tribunale di Milano nel 2006. Dopo alcuni ritardi, abbiamo ottenuto il Decreto d’Idoneità in un anno e mezzo, nel 2007, e l’abbinamento nel marzo 2008. Avevamo già avuto tre figli: P., di 12 anni, E., di 8 anni, e L., che venne a mancare quando era molto piccolo. Dopo l’esperienza di L., abbiamo deciso di aprire le porte a qualcuno che non avesse avuto una famiglia».
Com’è stato il vostro iter?
«Sicuramente, i tempi lunghi e qualche intoppo di percorso ci hanno fatti soffrire parecchio: il pensiero comune a tante coppie è che, con tanti bambini abbandonati, perché c’è da aspettare così tanto tempo? Se ci fossero tagli alla procedura, i bambini ne uscirebbero prima. Soprattutto, con meno costi, molte coppie sarebbero più felici. Ci sono tante persone in gamba, che non possono permettersi l’adozione».
Conoscevate il Congo?
«Conoscevamo entrambi la realtà dell’Africa, siamo stati volontari in Camerun e abbiamo amici missionari a Kinshasa. Tra il 1987 e il 1989, sono partita per Yaoundé, da sola; poi, nel 2002-2002, ci sono tornata con mio marito, all’interno di un progetto della Diocesi di Milano. A Kinshasa, lo scorso mese, ci siamo resi conto della situazione molto caotica».
Che differenze avete trovato?
«Tra il Camerun e il Congo? In Camerun, il fatto di non aver avuto da molto tempo una situazione politica instabile, ha creato sicurezza, cosa che ha permesso una certa crescita. D’altra parte, ha aiutato la popolazione: vedevo molti giovani iscritti all’università. Conta molto poi che il Camerun non sia particolarmente ricco di risorse, il Congo invece è martoriato, sotto questo punto di vista, dagli interessi multinazionali. In Camerun c’erano accenni di progresso, non di retrocessione. Sapevamo cosa avremmo trovato in Congo, anche se non ne avevamo mai visto la realtà, specialmente sotto le elezioni. Ci hanno raccomandato di restare sempre in hotel – non abbiamo trasgredito se non due volte, quando siamo stati a messa la domenica, in una missione al sicuro dai disordini – e non siamo mai usciti la sera. Infatti, in città, l’episodio del sequestro e del rilascio di Mauro P. ha suscitato allarme e poi sollievo, ma nessuna meraviglia. Purtroppo, non c’è stata possibilità di conoscere la realtà locale, nemmeno per informarci sulle radici culturali di nostro figlio».
L’incontro. Come vi siete conosciuti?
«Era venerdì 11 novembre. Siamo stati accompagnati in Istituto e siamo entrati in cortile. È il Centro Cuore e Mani di Cristo, gestito da un pastore protestante. I bambini erano tutti sotto una tettoia. La psicologa ha fatto il nome del nostro bambino e lo ha chiamato. Lui è venuto verso di noi: timido, molto lentamente. Ci siamo abbassati per abbracciarlo e salutarlo. Lui è stato piuttosto freddo. Poi, rientrati all’interno, la psicologa ci ha spiegato le sue caratteristiche. Noi avevamo portato dei pennarelli, con i quali ha fatto un disegno, sempre molto tranquillo, quieto, ma non restio. Lo abbiamo salutato. Il giorno dopo torniamo dal responsabile del centro, poi siamo ripartiti tutti insieme».

«L’inizio è stato molto duro – spiega Cristina –. J. piangeva spesso, nella fase di prendere sonno. Non voleva addormentarsi, piangeva, si bloccava fisicamente lì dov’era, bisognava spostarlo. I primi tre, quattro giorni, quasi non voleva farsi capire, neanche con quel poco di francese che sappiamo. Aveva quasi un’ossessione per il cibo, di mangiare, mangiare e mangiare. Eppure non è sottopeso, anzi. Abbiamo chiesto un incontro con la psicologa. Ci ha spiegato che, avendo fatto la pipì a letto, in Istituto i compagni ridevano di lui. Aveva paura di addormentarsi. Con l’affetto, e con la fermezza di bloccare il suo mangiare e mangiare, gli abbiamo fatto capire di cambiare. E obbedire ad alcuni nostri consigli è stata la sua salvezza».

«Dopo quattro o cinque giorni, è cambiato tutto – continua Cristina –. È venuto fuori il bambino che è dentro: mai voglia di stare fermo, sempre con qualcosa da fare. Il lavoro è duro anche adesso, ma sicuramente lui è serenissimo, ora. Quando vuole una cosa, e la vuole intensamente, ancora s’incupisce; forse è la nuova abitudine di avere giochi, letto e cibo tutti i giorni. Ma siamo insieme da dieci giorni e sembra un miracolo che sia così!», e sentiamo sciogliersi, finalmente, dietro la cornetta, il sorriso di Cristina, che spezza la tensione del primo impatto e della lunga attesa, nel pensiero di una nuova consapevolezza: un figlio è entrato in casa e ha trovato accoglienza. E va che è una meraviglia.