Lettere al Direttore: “Affido, quando sarò figlio?”

Domanda di una coppia:
Siamo una coppia che ha fatto un’esperienza di affido, seppur breve, molto significativa.
Senza voler entrare nel caso di specie, per ovvie questioni di riservatezza, possiamo confermare quanto riferito dall’esperto di Ai.Bi., in merito alla domanda che questi bambini si fanno: perché io non posso essere come gli altri? Nonché in merito ai forti sensi di colpa, alle emozioni contrastanti che provano, combattuti tra il senso di lealtà verso la propria famiglia da una parte e, dall’altra, il desiderio di fare un’esperienza in un contesto familiare più idoneo ai loro bisogni.
Noi non possiamo non sentirci interpellati da questa domanda, che si evince dai loro sguardi e dalle loro continue richieste di rassicurazione.
A noi sembra che gli affidi sine die neghino il diritto di questi bambini ad essere figli, nel modo più profondo e giusto.
Spesso in questi affidi, troppo lunghi, viene meno il vero interesse dei bambini, costretti ad aspettare che i propri genitori, inadeguati, recuperino le proprie capacità.
Sappiamo con certezza che non sempre questo recupero si rende possibile: e allora, che fare? Dobbiamo lasciare questi bambini nel limbo, solo per preservare un legame di sangue?
L’affido non può che essere temporaneo e, dopo aver appurato che la famiglia d’origine è irrecuperabile, bisogna percorrere altre strade, quali l’adozione.

Ci teniamo a precisare che il legame che si crea tra bambino e famiglia affidataria è altro rispetto al legame che c’è tra un figlio e i propri genitori. E che quindi le due istituzioni non debbano essere tra loro confuse.

 

Carissimi,

avete proprio ragione: l’affido sine die è un atto di ingiustizia, un diritto negato, un abbandono nell’abbandono. La maggior parte degli affidi che durano molto oltre i due anni ripetibili, spesso si svolgono in situazione di quasi completa mancanza di relazione tra il bambino e la sua famiglia d’origine. Sono situazioni in cui, in realtà, la relazione è imposta da un decreto del Tribunale dei Minori che la prevede.
Cosa si può dire, quando sistematicamente un bimbo in affido rimette quanto ha mangiato prima dell’incontro con la mamma, o quando si mette le mani alle orecchie per tapparle quando è chiamato al telefono dal papà o, addirittura, quando ha crisi di apnea? Si può dire che in questi casi si sta tutelando il diritto del genitore a possedere un figlio, senza tener conto che il nostro ordinamento giuridico imporrebbe di tutelare il minore, ma soprattutto non si tiene conto del vissuto del bambino. 
Inoltre, questo proliferare degli affidi a lunghissimo termine ha generato in molte coppie, che potrebbero candidarsi all’adozione, il pensiero che tutto sommato sia possibile avere un figlio anche attraverso l’affido, accorciando così di molto i tempi amministrativi. Tutto questo non solo non risponde per nulla al bisogno del minore dichiarato affidabile, ma non risponde nemmeno al desiderio di maternità/paternità delle coppie che hanno in mente di poter utilizzare questa strada: non saranno riconosciuti come vera mamma e vero papà dal bambino.
Adozione e affido sono due istituti nettamente diversi. Soprattutto, sono diverse le relazioni che si instaurano tra genitore e figlio. Il bimbo in affido si adatta a vivere con due coppie di genitori ma, paradossalmente, nessuna delle due è genitrice realmente. Il bambino adottato, al contrario, riconosce nella coppia accogliente la sua unica mamma e il suo unico papà: è figlio. L’adozione gli ha reso giustizia del suo diritto di essere figlio.
Quindi voi avete perfettamente ragione nel dire che bisogna pensare a soluzioni alternative al sine die, prima fra tutte, sicuramente, l’adozione.
Sono convinta che gli affidi molto lunghi abbiano senso solo nel caso si configurino come un reale accompagnamento di una famiglia in difficoltà, da parte di una famiglia “sana”. In questo caso quel bambino in affido si sentirà comunque figlio dei suoi genitori biologici e magari percepirà come una zia e uno zio gli affidatari. Parliamo quindi di affidi generalmente consensuali e attivati prima del raggiungimento di quel livello critico di disagio, che poi non ammette più ritorno per il bambino e la sua famiglia d’origine.