Bari. Il Presidente del Tribunale dei Minorenni contro il mito delle adozioni internazionali

nessunoRiportiamo l’intervista rilasciata alla Gazzetta del Mezzogiorno dal Presidente del Tribunale dei Minorenni di Bari, Rosa Anna Depalo, riguardo la situazione delle adozioni nel capoluogo pugliese.

«Sfatiamo un mito: non sempre è vero che con l’adozione internazionale i tempi per abbracciare un bambino sono più rapidi». Il presidente del Tribunale per i Minorenni di Bari Rosa Anna Depalo sgombra il campo da alcuni luoghi comuni. «Abbiamo avuto coppie chiamate una settimana dopo il periodo di affidamento e ci siamo sentiti rispondere: “Ma come, così presto, non siamo ancora pronti”». Dal 2012 al primo semestre 2013 sono state 320 le domande di adozione internazionale (165 i decreti di idoneità emessi). Le domande di adozione nazionale sono state quasi 700 (200 i minorenni dati in affido in vista di adozione).

Presidente, dal suo osservatorio privilegiato le coppie che vogliono adottare un bambino sono abbastanza mature?

«Per essere genitori adottivi ci vuole una marcia in più. Occorre uno sforzo di accoglienza, di disponibilità e un amore immenso. Quasi sempre arriva il giorno in cui il bimbo riversa addosso ai genitori adottivi tutta la sua rabbia per un passato difficile che può affiorare anche a distanza di molti anni. Bisogna essere pronti quando questo accade».

Un esempio concreto?

«Ci sono coppie che dichiarano di essere disponibili ad adottare bambini con handicap lievi. Se proponiamo un bambino con un piede storto accade che quasi tutte tornano sui propri passi. Dalla leggera asimettria del volto all’aggressività. Sono tanti i motivi che spingono alcune coppie a dire “no”».

Quanto è difficile fare da “filtro” e verificare se a una disponibilità dichiarata corrisponde una disponibilità concreta?

«Molto. Occorre individuare coppie realmente affidabili sulle quali è possibile realizzare dei progetti adottivi con discrete possibilità di riuscita. Con l’adozione nazionale è possibile farlo, con quella internazionale, no».

Perché?

«Il bambino adottato in Italia rimane in affidamento almeno per un anno. Il più delle volte viene di fatto adottato ancora prima che la sentenza diventi definitiva attraverso l’affido provvisorio. E poi c’è l’affidamento preadottivo vero e proprio. Un lungo lasso di tempo, che può anche coprire tre-quattro anni dunque, in cui si può sperimentare la compatibilità con il bambino. Durante questo periodo è possibile monitorare costantemente la coppia e il bambino. Almeno ogni due mesi convochiamo operatori, minorenne e la coppia. Un eventuale malessere viene colto da noi, dagli assistenti sociali, dagli psicologi. Così è possibile correre ai ripari».

Cosa accade se qualcosa non va?

«Nei casi più gravi, ed è davvero triste, si può anche tornare indietro. Stiamo revocando, ad esempio, un paio di dichiarazioni di adottabilità per ragazzi che non hanno funzionato in affidamento e che torneranno nella famiglia di origine. Tutto questo non è possibile con l’adozione internazionale».

Può scendere più nel dettaglio?

«Possiamo valutare le coppie solo in astratto. Non possiamo che fermarci ai requisiti previsti dalla legge e a quella disponibilità che dichiarano inizialmente rispetto a un bambino ideale. Il lavoro che possono fare gli enti autorizzati è molto limitato rispetto a quello che può fare il Tribunale. E’ la la coppia che orienta la propria scelta. Se decide di adottare un bambino di colore si rivolgerà all’associazione “x” e non alla “y”. Si può individuare l’area geografica, ma non sempre la storia che conosce l’ente “intermediario” corrisponde a quella effettiva, reale del bambino. Non perché non lavorino bene, sia chiaro, ma solo perché riferiscono quello che viene restituito dagli enti assistenziali di Paesi in cui non c’è certo la stretta vigilanza che c’è in Italia».

E’ brutto dirlo, ma il rischio fallimento è maggiore?

«Molte volte l‘ente o l’associazione che si pone come intermediario con il Paese straniero, al netto, sia chiaro di ogni possibile “magagna” che, ripeto non c’è, rappresenta alle coppie le storie di cui è a conoscenza. Il risultato è che molto spesso i genitori tornano in Italia con un bambino che non conoscono. Non è un caso che i fallimenti adottivi sono più numerosi nelle adozioni svolte all’estero oltre che le più drammatiche».

Cosa vi è capitato di dovere gestire?

«Ci sono casi di ragazzini e ragazzine che sono andati a finire in clinica psichiatrica. Quando arrivano in Italia sono cittadini italiani e figli di genitori adottivi. Non c’è più alcun intermezzo tra la famiglia d’origine e quella di appartenenza. L’inserimento è immediato, avviene di getto. Una situazione ancora più complicata quando si tratta di adolescenti catapultati in una realtà completamente differente rispetto al contesto di origine. Il risultato è che, a volte, si muovono come elefanti in una cristalleria».

Cosa accade in concreto?

«Ci sono ragazzi e ragazze che vengono espulsi dalle famiglie adottive e che vengono inseriti in comunità fino al raggiungimento, a seconda dei casi, dei 18 o dei 21 anni. Sono le storie più drammatiche alle quali non c’è rimedio. In un caso abbiamo persino provato a mettere in contatto una ragazzina con il Paese di origine ma da lì ci hanno risposto: “è meglio se resta in Italia, avrà più possibilità”».

Un quadro piuttosto fosco.

«Purtroppo casi di questo tipo non mancano. Ci sono ragazzi soli con se stessi, privi di identità. Qualcuno tenta il suicidio. Ci sono anche casi di rapporti sessuali promiscui. C’è chi tende a farsi del male. Autolesionismo che diventa un modo per dire: “io soffro, quindi sono” oppure “mi faccio del male per vedere fino a che punto tu mi vuoi bene”. Una ragazza ha dovuto ricorrere a una parrucca perché si è strappata tutti i capelli per via del malessere. Arriva un momento in cui il bambino apprende, ed è doveroso che sia così, che i suoi genitori non sono quelli naturali e deve fare i conti con questa sua estraneità biologica. Di qui atteggiamenti provocatori per misurare la loro concreta disponibilità. Sono comportamenti che mandano in tilt le coppie e non tutte sanno reagire».

Oltre gli aspetti giuridici, cosa la colpisce da un punto di vista umano?

«I venti bambini che dal 2012 al primo semestre 2013 sono nati negli ospedali del distretto e abbandonati dai genitori. Mamme che lavorano nei campi o che esercitano la prostituzione sono andate via dopo averli partoriti. Lasciati in una struttura pubblica e non in un cassonetto, almeno quello. Qualcuno di loro potrebbe anche essere figlio della crisi economica. Mi creda, sono creature splendide che nessuno vuole».

 

 

Fonte: La Gazzetta del Mezzogiorno