Chi perde muore! Cosa è “Squid Game” e come parlarne con i nostri figli

La serie TV Squid Game che propone una società in cui i più disperati partecipano a dei giochi “mortali” per raggiungere premi e successo rischia di essere imitata dai ragazzi nella vita reale. Con conseguenze pericolose

Da qualche settimana è la serie televisiva più vista e discussa in assoluto: Squid Game. Partita in sordina, con l’ideatore, sceneggiatore e regista della serie che ha faticato a lungo prima di trovare qualcuno che accettasse di produrla, nel giro di un paio di mesi dall’uscita su Netflix è diventata, secondo i dati forniti dalla stessa società, la serie più vista in decine di Paesi. “Sarà senz’altro la nostra serie non in inglese di maggior successo” – sono le parole di Ted Sarandos, co-amministratore delegato di Netflix riportate da il Post – “E ci sono buone possibilità che diventi la nostra più grande serie di sempre”.

Squid Game: il pericolo di una serie distopica in cui chi perde un gioco muore

Con la stessa velocità del successo di visualizzazioni, però, sono cresciute anche le perplessità e le discussioni sui potenziali danni verso i più giovani di una serie in cui la crudeltà e la mancanza di empatia sono elementi essenziali.
Per chi ancora non lo sapesse, sintetizzando al massimo la trama, Squid Game propone una società in cui i più disperati accettano di affrontare una serie di “giochi” che mettono in palio cospicue vincite in denaro. La controindicazione? Chi perde muore. E quasi sempre in maniera piuttosto cruenta.
La serie teoricamente è vietata ai minori di 14 anni, ma aggirare questi limiti è cosa “normale” per i ragazzi, che hanno accesso a spezzoni di contenuti anche solo attraverso i social o le chat con gli amici. Il risultato è un allarme che da generalizzato si è fatto più concreto in alcune scuole. A Roma, per esempio, come riportato dal Messaggero, sono apparsi dei bigliettini con i simboli della serie TV e l’invito a chiamare un numero di telefono. Non c’è voluto molto per capire che si trattava di una trovata pubblicitaria, piuttosto discutibile, di un’agenzia immobiliare, ma l’effetto sui ragazzini è stato quello di “portare” la finzione della serie tv ancora di più nella realtà.
In un’altra scuola della capitale, la preside suor Alberta ha subito scritto ai genitori dopo aver visto i suoi studenti fare il “gioco del calamaro”, ovvero una delle prove più violente che si vedono nella serie, con annesse botte per chi perdeva. L’invito del suo messaggio è quello di stare attenti ai contenuti cui accedono i ragazzi. Sempre riportando l’articolo del Messaggero, lei, che Squid Game non l’ha mai vista, scrive così: “Mi dicono sia una seria crudele e cinica, tutto quel che proprio non serve ai nostri ragazzi, bambini che hanno paura di tante cose e rischiano di sentirsi forti in questi mondi inesistenti”.

Come parlare di Squid Game ai ragazzi delle scuole

Visto che un fenomeno del genere è difficile da ignorare e quasi impossibile far sì che non arrivi ai ragazzi, c’è chi propone un metodo per utilizzare Squid Game in maniera “intelligente”. Lo spiega Vita con un’intervista allo psicopedagogista Stefano Rossi, che sottolinea prima di tutto come Squid Game colga bene lo “spirito del nostro tempo”: il mondo liquido e spietato che divide gli esseri umani in vincitori perdenti.
Il consiglio concreto di Rossi è di dedicare a Squid Game una lezione di educazione civica, proponendo alcune domande che stimolino la discussione tra i ragazzi e li invitino a “pensare tra amici”, sull’esempio dell’insegnamento maieutico di Socrate.
Per i più piccoli, si può omettere il riferimento diretto alla serie tv, ma le domande che questa fa nascere possono essere comunque riproposte: la vita è realmente un gioco competitivo tutti contro tutti? Cosa accadrebbe se il “perdente” fossi tu? Esistono delle alternative a questo tipo di società?
Tutte domande che aiutano a riportare gli stimoli dati da Squid Game in un contesto più reale. Perché il vero problema forse non è tanto quello dei contenuti della serie in sé, ma la permeabilità con la quale la finzione dello schermo entra nella vita di tutti i giorni, portando i ragazzi a riprodurre in un cortile di scuola quanto è stato pensato per l’asettico set di una serie distopica coreana che per anni è rimasta chiusa nel cassetto. Per poi esplodere come una bomba una volta che qualcuno ha creduto potesse funzionare. E ha funzionato anche troppo.