Mamma e lavoro: un binomio impossibile! Nel 2020, 42 mila dimissioni di genitori di figli 0-3 anni

Una ricerca dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro ribadisce la difficoltà per le donne di conciliare lavoro e cura dei figli: quando nasce un bambino, la partecipazione maschile al lavoro aumenta, quella femminile diminuisce

Spesso, presi da altre priorità, emergenze e notizie più cliccabili è come se tutti se ne dimenticassero. Poi arriva qualche vicenda di cronaca o qualche report che riepiloghi i numeri e ogni volta la situazione torna a essere gettata in faccia all’opinione pubblica come una secchiata di acqua gelata: la parità di genere sul lavoro, in Italia, non esiste! Ma nemmeno lontanamente.

Lavoro femminile: nel 2020, 3 dimissioni su 4 di genitori con bambini da 0 a 3 anni sono arrivate da donne

I numeri sono impietosi: secondo il report dall’Ispettorato nazionale del lavoro (INL) nel 2020 si sono registrate oltre 42 mila dimissioni di genitori con bambini da zero a tre anni: di queste, il 77,4% arrivano da donne. Il motivo, neanche a dirlo, è la difficoltà di conciliare il lavoro con la cura dei figli: “La condizione di genitorialità – dice il rapporto, riportato da La Stampa– ha strutturalmente un impatto diverso sulla partecipazione al mercato del lavoro di uomini e donne. In presenza di figli la partecipazione maschile aumenta e quella femminile si riduce”.
Nelle famiglie in cui ci sia un caponucleo di età compresa tra 20 e 50 anni, l’occupazione delle donne è al 60% dove non ci siano figli tra 0 e 3 anni, al 50% dove c’è un figlio minore di un anno. Nella stessa situazione l’occupazione maschile è, rispettivamente, all’86% e al 90%.

Dimissioni “volontarie” per il 94% dei casi, ma spesso non ci sono alternative

Poco importa che, secondo il report, il 94% delle dimissioni siano volontarie, perché, come riporta una testimonianza sempre citata dal quotidiano La Stampa, di “volontario” in senso stretto c’è ben poco, specie nei mesi segnati da lockdown e pandemia: fatti due conti, tra stipendi ridotti e difficoltà a trovare qualcuno che si prenda cura dei figli (e da dover pagare), quasi sempre la scelta più “logica” è quella di restare a casa. Pur nella consapevolezza che, a lungo termine, quando i figli cresceranno, le difficoltà aumenteranno a livello personale, visto che il lavoro è anche uno spazio di libertà, un modo per affermarsi al di fuori del nucleo familiare e per mettere a frutto, magari, gli anni di studio fatti.
Non stupisce nemmeno che il terziario sia il settore con più dimissioni di neo genitori (72%) e che al 92% le dimissioni arrivino da operaie e impiegate, dove gli stipendi sono più bassi e gli spazi per organizzarsi tenendo conto delle esigenze familiari quasi inesistenti.
A “incentivare” le dimissioni c’è anche un fattore teoricamente nato per tutelare le madri: chi si dimette entro l’anno del bambino ha diritto alla naspi. Tornare al lavoro dopo la maternità, quindi, spesso di configura come un “rischio” che tante donne non si sentono di correre: sapendo di non avere aiuti e, in caso di necessità, finire per utilizzare tutto lo stipendio tra asilo nido e baby sitter, si sceglie di dare le dimissioni e, almeno per un po’, poter contare sulla disoccupazione. Poi… “si vedrà”. Che, purtroppo, sembra essere sempre di più quello che anche la politica dice davanti a questi problemi.

Dimissioni diminuite con lo smart working: che sia una possibile via di cambiamento per il lavoro femminile?

Eppure, in tutti i dati del report dell’INL ce n’è uno su cui varrebbe la pena riflettere bene: nel complesso, rispetto al 2019, le dimissioni sono diminuite del 18%. Come mai? Probabilmente, perché la possibilità “imposta” dalla pandemia dello smart working ha allentato i problemi e dato, soprattutto alle donne, una chance in più per conciliare vita e lavoro e non dover rinunciare alla propria posizione professionale. Perché, allora, anziché indignarsi per mezza giornata davanti ai numeri delle dimissioni di donne e la disparità di genere, per poi dimenticarsene, non si cercano quegli indizi che, forse, potrebbero indicare una direzione sostenibile per il futuro?
Perché dire “si vedrà”, in alcuni casi, assomiglia molto a improvvisare un fragile paravento per nascondere una resa incondizionata.