Disabile, 20 anni. Costretta all’aborto. “È nel suo interesse”

Il dietrofront della Corte d’appello. Ma il diritto alla vita del bambino non vale nulla?

Costretta all’aborto da un giudice. Il fatto è accaduto in Gran Bretagna e la protagonista è una donna di 20 anni, mentalmente disabile, incinta da 22 settimane. La ragazza, insieme alla mamma, un’ex ostetrica di origini nigeriane e di religione cattolica, ha provato a opporsi all’interruzione di gravidanza ma non c’è stato nulla da fare. Nonostante la manifesta intenzione della madre di occuparsi del piccolo insieme alla figlia, che ha sviluppato una forma di disabilità mentale intorno ai sei anni di età e che è sotto la custodia del National Health Service, i medici hanno sconsigliato di consentire il proseguimento della gravidanza, con il rischio di vedere poi il bimbo dato in affido ad altri e conseguenti ulteriori problemi psicologici per la giovane.

Inflessibile il giudice, Nathalie Lieven, che ha sentenziato che la scelta sia stata fatta “nel miglior interesse della donna, non in base alle opinioni della società sull’interruzione di gravidanza”, ammettendo però che la decisione fosse “straziante” ma “nell’interesse” della ragazza. Perché, come ha spiegato il giudice, il desiderio della giovane per il figlio poteva essere parificato a quello per un bambolotto…

Una sentenza crudele, quindi. Ma nell’interesse, secondo il magistrato, della giovane madre. Tuttavia, quando tutto sembrava perduto, è intervenuta la Corte d’appello, che, successivamente, ha annullato l’imposizione.

Un episodio, questo, che pone una volta di più di fronte a un dilemma culturale. Cosa deve prevalere in casi come questo? L’”interesse” (peraltro opinabile) di un adulto o il diritto alla vita di un bambino? La società occidentale sembra sempre (e purtroppo) rispondere anteponendo il primo, piuttosto che il secondo…