Facciamo fatica ad amare, perché non vogliamo essere amati

gesù apostoliPer la V Domenica di Pasqua, l’omelia del teologo don Maurizio Chiodi prende spunto dagli Atti degli Apostoli (At 14,21b-27), dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo (Ap 21,1-5a) e dal brano del Vangelo di Giovanni (Gv 13,31-33°.34-35) che racconta il momento in cui Gesù affida ai suoi discepoli un nuovo comandamento, quello dell’Amore.

 

Siamo oramai molto ‘avanti’ nel cammino pasquale, eppure il Vangelo di questa quinta domenica di Pasqua inizia ricordando il momento in cui Giuda uscì dal Cenacolo, per andare a tradire Gesù. Ed era notte, anche in senso simbolico. Un momento oscuro, drammatico, in cui il male e la violenza si scatenano contro Gesù.

 

Eppure è proprio in questo momento che, nel Vangelo di Giovanni, Gesù pronuncia parole straordinarie: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui …, anche Dio lo glorificherà …  subito». In queste parole di Gesù è racchiuso, in breve, tutto l’evento pasquale: la morte e la Resurrezione.

La morte di Gesù qui è annunciata come l’ora della sua ‘gloria’ e dunque il momento in cui è apparsa la bellezza, lo splendore affascinante di Dio.

Per Giovanni la croce è la gloria di Gesù, perché lì l’amore suo giunge al suo compimento, alla sua piena luminosità. Così, nella croce, Dio viene glorificato, non perché Dio si compiaccia di (far) soffrire – quasi chiedendo poi a noi di fare altrettanto! – ma perché Dio si compiace di amare e nell’amore grazioso per noi ci rivela e ci dona se stesso.

E, aggiunge Giovanni, come il Padre è stato glorificato nel Figlio che ha rivelato la bellezza dell’amore sulla croce, così il Padre glorificherà il Figlio, nella Risurrezione.

Questa è la risposta del Padre al dono totale del Figlio. È la risposta di Dio alla violenza della morte di croce. La morte non è l’ultima parola.

 

Con immagini davvero meravigliose è questo l’annuncio della seconda lettura, alla fine dell’Apocalisse (cap. 21): «Io, Giovanni, vidi un cielo nuovo e una terra nuova».  Poche parole, per dire la potenza creatrice di Dio che trasforma e plasma un nuovo mondo, un nuovo universo.

Ve lo immaginate un cielo nuovo e una terra nuova, dove cielo e terra ‘di prima’ siano scomparsi, essendo stato distrutto ogni segno di male e di violenza?

Così Giovanni vede «la Gerusalemme nuova», la comunità dei discepoli di Gesù, «scendere dal cielo, da Dio», bella «come una sposa adorna per il suo sposo». È bellissima, la Chiesa, non perché sia ‘perfetta’, senza macchia né rughe, ma perché è il Signore che l’ha resa bella, l’ha trasformata con il suo amore grazioso.

 

Una voce potente annuncia: «Ecco la tenda di Dio con gli uomini!».

La Chiesa è questa ‘tenda’ di Dio in mezzo all’umanità, è la sua presenza tra noi, in mezzo al dramma, alle lacerazioni, alle lotte della storia. Nel cuore di questo travaglio, a noi cristiani è dato il dono di testimoniare, per grazia, la potenza di Dio tra noi.

Che compito impegnativo! Un Dio che abita tra noi, con noi, per sempre!

 

«E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate».

Questo è l’amore meraviglioso del nostro Dio per l’umanità: nella Pasqua di Gesù, Dio ha reso vana la morte e, con essa, ogni lutto, ogni lamento, ogni affanno, ogni lacrima.

È vero che le lacrime, gli affanni, i lutti, la morte non sono scomparsi dalla storia nostra, dalla nostra vita – quante lacrime, quanti lutti, quanto dolore! – eppure, grazie a Gesù, noi custodiamo una speranza più forte: Dio è con noi, dimora per sempre tra noi, lui che è il Risorto.

 

«Ecco, io faccio nuove tutte le cose».  Questa è la promessa di Dio, attuata nella Pasqua di Gesù. Ma questo non accade senza di noi! Non è un dono che ci piove addosso, ma è una grazia che ci impegna a renderla presente nella storia e nei suoi drammi.

 

Così comprendiamo bene la seconda metà del Vangelo di oggi e la prima lettura, dagli Atti degli Apostoli.

Prima di morire («ancora per poco sono con voi»), come un testamento, che richiama la ‘seconda legge’, data una seconda volta (Deuteronomio) da Mosè, nelle steppe di Moab, davanti alle acque del Giordano, prima di entrare nella promessa, così Gesù, prima di entrare nella sua Pasqua, lascia ai suoi «un comandamento nuovo».

 

È bellissimo, questo comandamento, e lo conosciamo bene, ma in Giovanni la formula che lo esprime è particolarmente suggestiva: «che vi amiate gli uni gli altri».  Gesù ci chiede la reciprocità di un amore, che ciascuno si impegna a vivere ‘per grazia’.

Reciprocità e grazia, nel comandamento di Gesù, sono inseparabili. Se ci fosse solo la reciprocità ci sarebbe un grave rischio: io non amerei l’altro, se l’altro non amasse me. Al massimo, una volta, potrei fare il primo passo, ma poi se l’altro non mi ‘restituisse‘ l’amore, la benevolenza, allora smetterei.

E quante volte succede davvero così!

Ci lamentiamo che l’altro, gli altri, non si accorgono, non vedono il nostro amore, e allora ci stanchiamo, ci fermiamo, rifiutiamo di continuare ad amare. Ma, magari – e quante volte succede – l’altro pensa esattamente la stessa cosa e così si crea incomunicabilità. Ciascuno diventa sordo.

 

Non c’è solo la ‘reciprocità’, nell’amore del cristiano. C’è la grazia!

È per grazia che, l’uno e l’altro, si impegnano ad amare. ‘Grazia’ significa ‘senza attendere’ il ‘ritorno’, senza calcolo. Ad esempio, come una mamma o un papà amano il proprio figlio. «Come io ho amato voi, così…».

Questo è il ‘segreto’, non misterioso, ma reale, della reciprocità graziosa dell’amore che Gesù chiede a noi, suoi discepoli: «Come io ho amato voi …». Quel ‘come’, lo sappiamo bene, è molto più di un invito a imitare. È anzitutto l’invito a fare nostra l’esperienza di essere amati da Gesù, con il suo amore grazioso e meraviglioso.

Allora, se viviamo l’esperienza viva di essere amati, questo dono diventa fonte, ‘sorgente’ e ragione del nostro piccolo amore gli uni per gli altri.

Solo se siamo preceduti possiamo amare, a nostra volta.

Forse facciamo tanta fatica ad amare, perché facciamo tanta fatica ad essere amati, a lasciarci amare, a credere di essere ‘inondati’ dall’abbondanza di un amore che ci apre ‘cieli nuovi e terra nuova’, un amore che eliminerà ogni lacrima, affanno, lutto….

 

Anzi, Gesù dice: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri». Il marchio, il segno che caratterizza i cristiani come tali, è questo amore reciproco e grazioso, anche quando l’altro non ci ama!

Se manca questo amore, di grazia, gli uni per gli altri, allora gli altri non possono sapere e non potranno riconoscere che noi siamo ‘discepoli’ di Gesù.

Pensate come è grande e come è impegnativa questa parola di Gesù!

 

Nella lettura degli Atti, si racconta del primo viaggio ‘apostolico’ di Paolo, Barnaba e compagni.

Si dice che gli apostoli esortavano tutti i discepoli «a restare saldi nella fede, oltre a attraversare … le molte tribolazioni».

Questa è la Chiesa: la comunità che, rimanendo salda nella fede, fa memoria viva della grazia di Dio e così diventa segno concreto e visibile dell’opera di Dio nella storia.

La memoria di questa grazia ci impegna ad amarci gli uni gli altri.

 

Ritornando poi ad Antiochia di Siria, da dove erano partiti, Paolo e Barnaba raccontano ai cristiani come Dio «avesse aperto ai pagani la porta della fede».

Questa è una bellissima espressione: la fede è come una porta che ci permette di entrare nella luce di nuovi orizzonti, ‘cieli nuovi e terra nuova’.

 

È l’orizzonte dischiuso ad una nuova speranza: amati, ci è chiesto di amarci, gli uni gli altri. Per grazia.

Così saremo aperti alla speranza di ‘cieli nuovi e terra nuova’.