Fame di Mamma. “Pensavo e ripensavo al mio viaggio, ma soprattutto pensavo al fatto che ero vivo. Vivo!” (4)

Quarto e ultimo capitolo del racconto dedicato al viaggio di Mostafa. Sbarcato in Italia, a piedi e con ogni mezzo possibile raggiunge infine Milano e un luogo “da poter chiamare casa”, anche se il cuore rimane a 4900 km di distanza

“Avevo attraversato il deserto, schivato il fuoco della polizia libica ed ero scampato ai loro lager. Avevo attraversato il mare in un interminabile viaggio di 11 giorni, i più lunghi della mia vita.”
Eppure Mostafa ce l’aveva fatta.
“Pensavo e ripensavo al mio viaggio, ma soprattutto pensavo al fatto che ero vivo. Vivo!”
E quasi Mostafa non riusciva a crederci.

La fine di un viaggio e l’inizio di un altro

Dopo un viaggio incredibile, faticoso e pericoloso per un ragazzino di 12 anni (qui si possono leggere gli episodi precedenti della sua storia: 1, 2, 3) Mostafa esprime oggi queste parole, che contengono insieme dolore, stupore, incredulità, paura ma anche voglia di ricominciare.
Scappare di casa in cerca di fortuna o futuro migliore in molti Paesi del mondo ha a che fare con molte cose, tranne i capricci o i colpi di testa. Come abbiamo potuto conoscere dalle parole di Mostafa, lavoro pesante e infanzia negata sono troppo per un bambino che sente di poter realizzare altro, di voler essere diversamente da come una società ti impone.
Arrivato sulle coste italiane è rimasto solo un paio di giorni a Taranto, all’interno di un centro di prima accoglienza per migranti che arrivano via mare o terra ma senza documenti. Trasferito a Campobasso in un centro simile, dopo poco più di un mese è scappato per raggiungere un fratello che, nel frattempo, era arrivato a Milano.
Il sistema di accoglienza italiano, insufficiente e carente, non è in grado di accogliere e includere in modo adeguato tutti i migranti adulti. La situazione è ancora più complessa quando si tratta di minori stranieri non accompagnati (MISNA) e Mostafa non è stato il primo ragazzino a scappare da un centro come questi, in attesa di un percorso di accompagnamento all’autonomia.

Prima di tutto sono un ragazzo

“Senza un euro, senza saper dire una parola in italiano e non avendo idea di come funzionassero i trasporti pubblici, né delle distanze da percorrere – racconta – andai in stazione e cercai di raggiungere Roma. Di treni ne ho cambiati moltissimi. Ovviamente, sempre senza biglietto”.
Mostafa dorme per strada sia a Roma sia a Milano, dove arriva con molti mezzi, dopo aver percorso anche diversi chilometri a piedi.
“Anche in Italia le mie suole hanno macinato chilometri”, dice. A Milano finalmente ritrova e riabbraccia suo fratello.
Mi sento incredibilmente fortunato. La mia vita, oggi, è abbastanza serena – aggiunge Mostafa – Vivo in una casa accoglienza e, nonostante il mio cuore sia a migliaia di chilometri di distanza, ho un posto che posso chiamare casa e dei compagni che posso chiamare amici. Da casa ad Abnub, in Egitto, a dove mi trovo oggi, ho percorso 4900 km. Prima di essere uno straniero, un immigrato, un islamico, un arabo, un egiziano, un ospite, uno studente, sono un ragazzo. Un ragazzo che ha affrontato la paura, la perdita, la mancanza”.
Il suo racconto, per ora, termina qui. Mostafa ci lascia con una riflessione: “Dietro a ogni persona c’è una storia e ogni storia merita di essere accolta ed ascoltata”.

(3 Continua) 

Leggi la parte 1

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