I figli dei barconi nel porto dell’amore

sbarchi2Sono partiti da Gambia, Senegal e Somalia. Hanno attraversato Paesi interi, prima di imbarcarsi, a rischio della propria vita, in uno dei tanti viaggi della speranza, a bordo di imbarcazioni precarie, che li hanno portati sulle coste italiane. Da soli, senza genitori o amici adulti che li accompagnassero nella ricerca di una nuova vita. Si chiamano Farah, Abdoullah, Mawuli e Haamid. Sono alcuni dei minori stranieri non accompagnati, che, una volta giunti in Italia, hanno bisogno, prima di qualsiasi altra cosa, di un’accoglienza familiare. Amici dei Bambini è riuscita a garantire loro questo diritto fondamentale. Nel numero del settimanale “Gente”  in uscita a fine gennaio, viene raccontata la loro storia e quella delle famiglie siciliane che li hanno presi in affido. Di seguito riportiamo l’articolo della giornalista Rossana Linguini. 

 

Ad aprire la porta di casa, in un quartiere residenziale di Messina, viene lei, Farah, 14 anni, una famiglia in un villaggio in Somalia e una nuova qui in Italia, dove è sbarcata a dicembre. Da sola. È stata fortunata, Farah, perché quel barcone ha avuto la meglio sui flutti ed è arrivato ad Augusta (Siracusa), e perché Antonio Russo e Monica Messineo, otto figli dai precedenti matrimoni più una insieme, Serena, la stavano aspettando. «Ora che i ragazzi sono grandi questa casa è troppo vuota», dice Monica, un’infanzia in un istituto che non ha mai dimenticato, «e il naufragio del 3 ottobre a Lampedusa ci ha fatto decidere». Disponibili all’affido di un minore straniero non accompagnato. Uno di quei 2 mila che ogni anno approdano sulle nostre coste, dice Ai.Bi., associazione che si occupa di adozioni e affidi e ha lanciato l’sms solidale 45509 per la campagna “Bambini in alto mare”. È Ai.Bi. che ha fatto incontrare i Russo e Farah, che oggi sorride timida dietro la frangetta, le mani da bambina con lo smalto rosso e l’anello d’oro della mamma somala che non finiscono mai di tormentare quelle di Serena. “Walaal”, sorella, dice lei, che di parole italiane ne conosce poche, malgrado gli sforzi del nuovo “babbo”, così lo chiama, che con l’iPad prova a tradurre le parole tutti i giorni. «Ma Farah non è mai andata a scuola, non sa leggere e scrivere, dunque è complicato», dice Antonio.

Ci vuole tempo. Per far partire un piano educativo individuale e per cominciare un percorso psicologico che la aiuti a superare quel che lei, dopo cinque mesi di viaggio con due ragazzine della sua età e tre maschi adulti, non racconta, ma i lividi e le cicatrici sul suo corpo sì. Ci vuole tempo, e ogni giorno va un po’ meglio: pure quelle telefonate in Somalia, quasi sempre nel cuore della notte perché al villaggio non c’è campo e la mamma chiama quando può spostarsi. «All’inizio erano più concitate», ricordano Antonio e Monica, «abbiamo capito che il timore della madre era che l’avessimo comprata: ora parla anche con noi, ci fa capire che ci ringrazia per quello che facciamo». Farah sorride, sempre: in leggings e sneakers, come un’adolescente qualsiasi. Di quella tuta enorme che le avevano dato al centro di Siracusa, dove ha passato le sue prime 72 ore italiane, non ne vuole più sapere, come dello hijab, malgrado Monica gliene avesse comprato uno nuovo appena arrivata. «Da quel plaid rosso invece non si separa mai», dice Monica. «è l’unica cosa che non rifiuta di quel che stava dentro la sua borsa».

La “borsa” è il sacco della spazzatura che trovano nei centri di accoglienza, il bagaglio nel quale i migranti, piccoli o adulti, infilano quel che resta della loro vecchia vita e partono per la nuova. Lo stesso che avevano Abdoullah, 17 anni, del Gambia, e Mawuli, 16, del Senegal, quando sono arrivati a Messina, a casa di Giuseppe e Rosaria D’Amico e dei loro figli Davide, 7 anni, e Martina, 10. «Dentro c’erano due maglioni e un paio di pantaloni, ma ci sono voluti giorni perché lo svuotassero», dice Giuseppe.

A guardarli Abdoullah e Mawuli potrebbero essere davvero fratelli: invece si sono conosciuti poco tempo fa, sul barcone arrivato in Sicilia il 18 dicembre, quando gli scafisti in vista della costa li hanno costretti a buttarsi in acqua, anche se non sapevano nuotare. Della traversata ti raccontano tutti e due solo una cosa: «Abbiamo visto un ragazzo morire, un ragazzo pakistano». In acque internazionali, spiegano in inglese, quando tutti erano seduti su bidoni di nafta, che perdevano, e lui è scivolato, imbrattandosi di carburante che sotto il sole cocente è diventato una tortura. «Lui è caduto, tutti erano nel panico, ed è morto così, schiacciato». Il viaggio è durato tre mesi ed è iniziato in Gambia, dove viveva anche Mawuli dopo che suo padre, ufficiale in Senegal, era stato costretto a scappare per i disordini nel Paese. Poi Burkina Faso e Nigeria fino al confine libico: prima in pullman con un biglietto («Ma io non l’ho pagato, ho fatto una fotocopia del ticket», dice Abdoullah), poi con un pick-up con 30-35 persone sopra. «Lo vedi, come in questa foto», dicono mostrando un’immagine trovata su Internet. In Libia Mawuli è finito in un centro di detenzione ed è stato ferito in un’esplosione di cui porta ancora le schegge nel braccio, e Abdoullah ha fatto il muratore e sopportato botte e ancora botte. «They were bad boys», erano cattive persone, ripete. Quello che vogliono ora è studiare l’italiano e trovare un lavoro. «Devono guadagnare per rendersi indipendenti e aiutare le famiglie che per mandarli qui hanno speso più di mille euro», spiega Giuseppe. Mawuli, che ama il reggae e sogna di andare in Finlandia, vorrebbe fare l’autista o il giornalista; Abdoullah, appassionato di calcio e tifoso del Milan, l’idraulico. Tutti a tavola, si mangia: e Mawuli e Abdoullah, che pregano Allah cinque volte al giorno ed esultano quando Dinah Caminiti, responsabile di Ai.Bi. in Sicilia, promette loro di portarli alla moschea cittadina il venerdì successivo, per prendere la forchetta in mano aspettano che il resto della famiglia finisca di ringraziare Gesù per il cibo in tavola.

Anche il fratello di Rosaria, Antonino Vinci, 34 anni, voleva fare qualcosa per i profughi bambini, e con sua moglie Caterina, 30 anni, si è reso disponibile all’affido di un bimbo con meno di 8 anni. Invece è andata diversamente, e loro, da nove mesi genitori adottivi di Peniel Giacobbe, 2 anni, congolese, si sono ritrovati per casa Haamid, che li chiama mamma e papà ma di anni ne ha 17. «Ci ha fatto invecchiare di colpo», scherzano loro, nominati da Ai.Bi. famiglia più accogliente dell’anno. Somalo, Haamid è arrivato ad Augusta dopo due mesi attraverso Etiopia, Sudan e Libia. Ma non era finita: perché portato alla tendopoli messinese del Palanebiolo è stato dichiarato maggiorenne e mandato al Centro di accoglienza richiedenti asilo di Mineo (Catania): alla sua vera età si è arrivati solo dopo sue infinite suppliche e una verifica radiografica sulle ossa.  Haamid mangia pochissimo: «Come se praticasse una sorta di solidarietà con la sua famiglia, che di cibo ne ha assai poco», spiega Caterina. E non parla. «Quando siamo andati a prenderlo a Mineo», ricorda Antonino, «non c’era il mediatore, lui non parla bene inglese e noi nemmeno. Ma non ha avuto problemi a farci capire le sue richieste: studiare l’italiano e sentire i suoi ogni tanto». Poi, una volta in autostrada, passando davanti al centro: «Bye bye Mineo. Forever».