Il figliol prodigo ci rivela il ruolo dei genitori: educare è atto di gratuità, ma consapevole del rischio

educare i figliPer questa IV Domenica di Quaresima, la riflessione del teologo don Maurizio Chiodi prende spunto dai testi del Libro di Giosuè (Gs 5,9-12), della Seconda Lettera di san Paolo Apostolo ai Corinzi (2Cor 5,17-21) e dal brano del Vangelo di Luca (Lc 15,1-3.11-32) in cui Gesù narra la famosa parabola del “Figliol prodigo”.

 

 

Al centro della Parola di questa quarta domenica di Quaresima c’è una parabola bellissima e, giustamente, tanto famosa. 

«Costui accoglie i peccatori e mangia con loro».

Questa è la ‘mormorazione’, il rimprovero, addirittura l’accusa che i farisei e gli scribi rivolgevano contro Gesù.

Queste parole ci aiutano a comprendere il ‘centro’, il ‘fuoco’ di questa splendida parabola. Infatti c’è il rischio che, per la bellezza di questo racconto ‘inventato’ da Gesù, ci disperdiamo in mille rivoli, che pure sarebbero tanto affascinanti, anche dal punto di vista psicologico.

Questi due figli sono un ritratto formidabile di due diversi e opposti stili di vita: uno trasgressivo e l’altro abitudinario, uno in cerca di evasione e l’altro tutto casa e lavoro. Ci sono sfumature straordinarie, come delle pennellate di un maestro, nella descrizione che ne fa Gesù!

Ma pensate anche quanti insegnamenti di carattere pedagogico ed educativo ci sono in questa storia: lo stesso padre e due figli completamente diversi, l’uno dall’altro. La stessa educazione, con due risultati opposti.

Addirittura, questo padre, che sembra tanto bravo – e lo è – deve fare i conti con il ‘fallimento’ della sua opera educativa.

Educare non è ‘stampare’, come se da una matrice uscissero delle copie identiche!

Educare è entrare in una relazione tra (almeno) due libertà. “Tu, educatore, o padre, o madre, puoi dare anche la più bella testimonianza, ma non è affatto ‘garantito’ un buon risultato”.

Educare è compiere un atto di gratuità, pieno di passione per l’altro, consapevoli del rischio che, all’apparenza, tutto possa andare perduto. “Educando, tu testimoni all’altro ciò per cui vale la pena spendere la vita, nella coscienza che l’altro possa rifiutare il tuo dono, la tua testimonianza”.

 

Tutto questo sarebbe bello e interessante da approfondire, e altro ancora …, ma non sarebbe questo il ‘centro’ della parabola.

Il vertice, il culmine, di questo racconto, è il banchetto, è la festa. La parabola lo descrive bene, questo banchetto: è una festa, in un giorno feriale, con la musica e le danze, che inondano l’aria, al punto che si possono udire anche da lontano. Dice Gesù che il figlio, «quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze».

E poi, in questo banchetto, c’è un cibo prelibato: il padre ordina di ammazzare il vitello grasso, quello più buono, più abbondante, il più prelibato.

È bello quando a tavola, ci si trova insieme per gustare cibo buono. Si gusta meglio la bellezza di sederci insieme quando si possono gustare cose con sapori eccellenti. Anche la compagnia diventa più ‘saporosa’ quando si condivide qualcosa di buono.

E poi, in questa festa, il figlio che se ne era andato, indossa il vestito più bello, il vestito della festa, ha l’anello al dito, indossa i sandali della festa. E, forse, con lui anche gli altri sono vestiti a festa!

Una festa che si protrae lungo la giornata. Tutto quel giorno diventa un giorno di festa.

 

Ecco, a quella gente ‘rancorosa’, che lo rimproverava di perdere tempo a fare festa e a mangiare con i pubblicani e i peccatori, Gesù racconta una parabola che ha al centro questo splendido banchetto di festa voluto da questo padre così sorprendente!

Tanto più che l’occasione della festa è molto particolare e ‘speciale’. Non è un anniversario, non è un evento lieto ‘classico’ – che so – un matrimonio, una festa di laurea (per dirla con un linguaggio nostro!).

No! È la festa per il ritorno a casa di un figlio che si era perduto, alla ricerca di altre feste, e che, spinto da questo desiderio era caduto in basso, molto in basso: falsi ‘amici’, donne, prostitute, soldi, vita dissoluta. Aveva dilapidato perfino tutta la sua eredità, il patrimonio, il ‘dono del padre’ (patris munus). Aveva perso tutto, per inseguire un’illusione che gli era svanita tra le mani.

 

In effetti, quante volte è successo anche a noi: corriamo dietro ai nostri desideri e ci lasciamo ingannare. Pensiamo di trovare la nostra felicità nelle cose o in relazioni apparenti, luccicanti, ma prive di profondità.

Così, i nostri desideri diventano trappole. Restiamo imprigionati, prigionieri, cattivi (captivus, in latino, significa ‘prigioniero’). Restiamo prigionieri di noi stessi.

 

Ma, ecco, la cosa sorprendente è che la ‘festa’ nasce per il ritorno di un figlio così.

Certo, è vero che questo figlio, nel momento più duro, quando aveva perso tutto e per sopravvivere era diventato guardiano di porci, in quel momento aveva aperto gli occhi, come costretto a risvegliarsi dopo una lunga illusione.

È vero che questo figlio aveva deciso, per calcolo, di ritornare a casa, ma senza avanzare nessuna pretesa. Aveva imparato qualcosa da quello che aveva sofferto!

E quando si mette sulla via del ritorno, una via difficile, dolorosa, piena di incognite, perché non sa che cosa lo aspetta, accade una cosa che non aveva messo in conto: suo padre era là, che da lontano scrutava l’orizzonte. Lo aspettava, questo padre straordinario, che viene preso da una com-passione profonda, viscerale verso questo figlio. E allora gli corre incontro. Non sta lì, fermo, ad aspettarlo, magari per dargli una ‘bella lezione’ così che impari, e la prossima volta non lo faccia più.

 

«Gli si gettò al collo e lo baciò».

È una scena fantastica, che ci dice tutta la fantasia di Dio. È la fantasia dell’amore.

La festa nasce da questo abbraccio, da questo bacio, da questo ‘corpo a corpo’ silenzioso, tra padre e figlio. La festa è la risposta del Padre al ritorno del figlio.

 

A questa festa è invitato anche l’altro figlio. Era nei campi a lavorare. Non era stato possibile andarlo a chiamare, per il fervore dei preparativi.

Era un figlio ‘modello’. «Non ho mai disobbedito a un tuo comando».

È un’immagine perfetta, questo figlio, degli scribi e dei farisei. Tutti a posto, sempre. All’apparenza! Ma, ‘dentro’, questo figlio covava rancore, risentimento. Non era felice di stare con suo padre. La vita per lui era dovere, obbligo, lavoro, lavoro, lavoro.

 

«E tu – dice con rabbia – non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici».

Poverino, questo figlio, probabilmente di ‘amici’ veri non ne aveva, come l’altro quando era via. Ma si lamenta col padre di non aver mai potuto far festa.

Questo figlio non era scappato, non era andato via, ma aveva vissuto senza mai far festa!

È proprio questo figlio, così riottoso, rancoroso, pieno di pretese, che si crede in credito col padre, è proprio questo figlio che il padre esce a supplicare, in ginocchio, perché entri anche lui alla festa.

«Tutto ciò che è mio è tuo», gli dice. Sono parole splendide di amore sovrabbondante. Ma il figlio non vuole entrare. È accecato dalle sue pretese di giustizia.

Il banchetto della parabola è splendida immagine dell’Eucarestia.

 

La prima lettura parla del giorno in cui cessò la manna, il giorno in cui il popolo comincia a mangiare «i frutti della terra di Canaan».

Questa è l’Eucarestia: dentro il frutto del nostro lavoro si nasconde la manna, il pane del cielo, che è il dono di Dio, la sua presenza di gioia, di riconciliazione (seconda lettura), di perdono.

 

Da qui scaturisce la festa della domenica, la festa che è l’Eucarestia!