Il mio affido? Di rinnovo in rinnovo, dura da 8 anni !

Amanda scrive:

Buongiorno,

viviamo un’ esperienza di affido da 8 anni; il bambino è arrivato da noi quando aveva 8 anni senza, per fortuna, aver vissuto prima il dramma dell’istituto. Oggi ha 16 anni e nessuno ha mai pensato di dare un futuro certo a questo ragazzo. Si va avanti così.. con un rinnovo ogni due anni!

Tanto sono solo bambini!! non votano!! Ecco l’orrore vergognoso delle cosiddette Comunità Educative, che vivono e speculano sui bambini, per assicurarsi le congrue rette che vengono tranquillamente elargite!! Diciamole queste cose, e si denunci chi ha tenuto un bimbo di 6 anni senza una famiglia, senza un affetto, rovinandogli la vita!!

 

 

cristina riccardiGentile Amanda,

la storia che brevemente ci racconta è quella di molti altri ragazzi purtroppo.

Il sine die è proprio questo: un affido che si rinnova di 2 anni in 2 anni senza un progetto e senza la prospettiva di rientro in famiglia. L’affido sine die è attesa. Ma di che cosa?

E’ proprio contro queste forme di abbandono che Ai.Bi. propone una revisione della legge 149.

Nel nostro manifesto è chiara la volontà di riportare l’affido familiare al suo vero senso: un’accoglienza familiare temporanea per quei bambini le cui famiglie non sono in grado di farsi carico della cura e dell’educazione dei propri figli, ma con la prospettiva di poter superare i gravi problemi che sono la causa di questa situazione. Senza queste condizioni non ha senso pensare all’affido come risposta ai bisogni di questi bimbi e delle loro famiglie.

Un affido che vada oltre i 2 anni più 2 (fin troppi se pensati per un bambino!) ha motivo d’esistere solo se la famiglia d’origine ha bisogno di essere supportata e non sostituita in toto, solo se l’affido si configura come un accompagnamento tra famiglie in cui il bambino trascorra molto tempo con la propria famiglia senza perderne il senso di appartenenza. Ci possono essere situazioni irreversibili di difficoltà nella gestione del quotidiano che necessitano di aiuti “familiari”, pensiamo ad una mamma o ad un papà soli, senza rete familiare o amicale … Comunque è indispensabile anche in questi casi che progetto e obiettivi siano chiari e condivisi tra tutti gli attori coinvolti perché anche l’aiuto non si trasformi in indefinitezza e sospensione.

Per quanto riguarda le Case Famiglia credo invece non sia opportuno sparare sul mucchio.

Purtroppo c’è una gran confusione in merito, spesso anche le comunità educative si fregiano di questo nome.

Le Case Famiglia sono gestite da coppie coniugate che garantiscono realmente “rapporti interpersonali analoghi a quelli di una famiglia”. Nelle Case Famiglia di Ai.Bi., ma non solo, si lavora per il bene del bambino anche grazie alla collaborazione che gli operatori dell’associazione riescono a strutturare con i servizi sociali.

Siamo convinti che il collocamento in comunità educativa debba essere l’eccezione: ogni bambino ha diritto a vivere in famiglia, salvo quelle situazioni in cui effettivamente il trauma è tale da richiedere un apporto specialistico particolare, ma sempre cercando di contenere il più possibile i tempi del collocamento in comunità.

In un quadro legislativo non chiaro, è possibile che qualcuno approfitti della situazione, ma credo che la maggior parte delle famiglie e degli operatori di supporto nella Case Famiglia lavorino in assoluta buona fede. Inoltre in questo quadro di crisi economica, le assicuro che le rette non sono “tranquillamente elargite” dai servizi sociali.

Cristina Riccardi