La Parola di Dio non è troppo in alto né troppo lontana da noi: è nella nostra bocca e nel nostro cuore

gesù messo alla prova nel tempioIn occasione della XIV Domenica del Tempo Ordinario, la riflessione del teologo don Maurizio Chiodi prende spunto dai testi del libro del Deutoronomio (Dt 30,10-14), della Lettera di san Paolo apostolo ai Colossési (Col 1,15-20) e del Vangelo di Luca (10,25-37).

 

È una bellissima parabola quella che sta al centro della Parola di questa domenica. È una Parola bella perché, come dice il Deuteronomio nella prima lettura, «non è troppo alto per te, né troppo lontano da te».

Questa Parola non è troppo alta, come noi pensiamo spesso, immaginandoci che la Parola ci proponga un ideale troppo elevato, che va bene per i super-uomini, per gli eroi, per chi … non è come noi!

Questa Parola non è nemmeno ‘troppo lontana’ da noi come se fosse estranea, e quindi indifferente, non incisiva per la nostra vita!

Mosè, nel Deuteronomio, dice che, al contrario, «questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica».

Sono espressioni molto belle, queste, che ci suggeriscono che la Parola di Dio è per noi un dono prezioso, una grazia nella quale dobbiamo riconoscere qualcosa che, mentre ci viene sorprendentemente incontro, ci appartiene da sempre.

Non è estrema, né irraggiungibile, né impossibile, questa Parola! Ci viene incontro, e ci tocca da vicino, se noi ci lasciamo coinvolgere, se la ascoltiamo, se ci lasciamo sorprendere, se impariamo a gustarla, se la facciamo diventare luce per la nostra vita.

È nella «bocca» e nel «cuore», e cioè è una Parola che chiede di diventare me, come se la mangiassimo (bocca), e che ci riguarda fin nel profondo e nella totalità di noi stessi (cuore).

Paolo, nella seconda lettura, dice che Gesù, che è la Parola fatta carne, «è l’immagine del Dio invisibile». Ecco, Gesù nella sua storia, ci mostra Colui che non è visibile, è l’immagine di Colui che non ha immagine: ha avvicinato noi a Dio avvicinando Dio a noi! In Lui noi siamo stati creati, e perciò lui non è estraneo alla nostra vita, ai nostri desideri, alle nostre aspirazioni più belle.

È così che possiamo ascoltare questa splendida parabola del Samaritano.

Ci guiderà una domanda, nell’ascolto di questa Parola: chi è il Samaritano?

La risposta a questo interrogativo è molto semplice.

Anzitutto, possiamo dire che il Samaritano è ‘immagine’ e ‘figura’ di Gesù stesso.

Gesù è quest’uomo che, camminando lungo le strade dell’umanità, si ferma a soccorrere e a prendersi cura di noi. Perciò questa Parola ci parla della vicinanza’ di Dio, della sua prossimità.

È uno dei tanti modi per dire il Vangelo, la buona notizia della ‘cura’ di Dio per la nostra vita. Prima di chiederci qualcosa, la parabola ci invita ad aprire gli occhi, a scoprire quel che in Gesù, Dio fa per noi!

La parabola nasce da una domanda, posta da un dottore della Legge che, ad un certo punto, «per mettere alla prova Gesù, gli chiede: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». Non è l’unico personaggio che, nel Vangelo, pone questa domanda a Gesù. Ricordate anche la domanda del ‘giovane ricco’?

Apparentemente, è un interrogativo bello e profondo, che riguarda addirittura ogni persona. Lo potremmo ‘tradurre’ così: per che cosa vale la pena vivere? C’è qualcosa nella vita di tanto grande che ci permetta di ‘gustarla’ in pienezza, anticipando così quella ‘eternità’ beata che sarà la comunione con Dio, dopo la morte?

Però questa bella domanda il dottore della Legge la pone a Gesù con intenzioni non pulite, non trasparenti. Quest’uomo, esperto della Legge, vuole vedere se questo ‘Maestro’, Gesù, tanto famoso e, all’apparenza, tanto bravo, sia davvero un ‘Maestro’, come dicono.

C’è invidia, forse anche arroganza, protervia, superbia e malanimo in una domanda apparentemente tanto bella!

In fondo, per questo dottore della Legge, si tratta di fare una ‘disputa’ con Gesù, come per vedere chi è più bravo, chi è più esperto!

Gesù, secondo il suo stile, profondamente umano, risponde con un’altra domanda, che costringe chi è dinnanzi a lui a mettere in gioco se stesso.

Gesù non è una ‘macchinetta’ automatica, un motore di ricerca del web, per trovare risposte pre-fabbricate. Non ci possiamo accostare a lui come per usarlo, per soddisfare le nostre curiosità o per vedere se ci dà la risposta ‘giusta’!

Quello scriba, però, alla domanda di Gesù, risponde bene, almeno all’apparenza. Cita il doppio comandamento, che è la sintesi preziosa di tutta la Legge, della quale lui è esperto: «Amerai il Signore tuo Dio» con tutto te stesso – cuore, anima, forza e mente dicono la totalità della persona – e amerai «il tuo prossimo come te stesso».

È davvero il ‘succo’ e l’essenza di tutta la Scrittura Santa.

A parole, quest’uomo sa tutto. Ha studiato perfettamente il catechismo. Ma, per lui, questa Parola è lontana. Non la ascolta davvero. Gli rimane estranea. Non se ne lascia toccare.

Gesù, però, prende il meglio di quest’uomo: «Hai risposto bene», gli dice.

Anche dinnanzi alle persone che si rivolgono a lui in modo subdolo, lui è un uomo trasparente, libero, limpido.

Però, poi, subito dopo, aggiunge: «fa’ questo e vivrai». Vedete come vuole mettere in gioco questo «dottore della Legge»? Davanti a uno che vuole fare il ‘saputello’ Gesù rimette le cose a posto. Non è un dibattito intellettuale che lo interessa, ma una questione pratica, concreta, che riguarda la vita. È lì che Gesù vuole andare.

Il dottore della Legge, però, è molto lontano, resiste, si nasconde. Così, alla fine, fa ancora una domanda astratta, ‘teorica’: volendo giustificarsi, dice a Gesù: «E chi è mio prossimo?».

È un uomo sulla difensiva, oramai, che contrattacca, per sapere da che parte sta Gesù: è uno che considera ‘prossimo’ ogni uomo, anche gli stranieri, i nemici? Oppure è uno che vede nel ‘prossimo’ solo come quello che appartiene al suo popolo?

Questo era il dibattito di allora, tra gli esperti della Legge – come vedete, in fondo, non era una discussione molto diversa da quelle di oggi: ‘chi devo accogliere? Anche lo straniero? Tutti?’ -.

Gesù non risponde a questa domanda, non perché scappi, vigliaccamente. Non risponde perché, semplicemente, la rovescia. Se quel dottore della Legge gli aveva chiesto: «E chi è mio prossimo?», volendo capire chi fra gli altri è o non è il suo prossimo, Gesù conclude la sua splendida parabola chiedendo: «Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?».

La risposta è inevitabile: «Chi ha avuto compassione di lui».

Vedete, la genialità di Gesù sta proprio in questo rovesciamento: il prossimo non è l’altro, ma sei tu stesso, cioè è nel tuo modo di metterti in relazione con lui.

Tutto dipende da questo, dalla tua capacità di ‘avvicinarti’ all’altro e di prenderti cura di lui.

Mentre il sacerdote e il levita passano ‘oltre’, il samaritano – che per gli ebrei era uno straniero, odiato, e anche un eretico –, mentre era anche lui in viaggio per i suoi affari, passa accanto, vede e prova «compassione». Si lascia commuovere da quell’uomo «mezzo morto», che incontra sulla sua strada.

E poi Gesù indica le azioni concrete che scaturiscono dalla «compassione» di questo samaritano: sono gesti di cura, di tenerezza, di amore.

Sei tu, sono io, è ciascuno di noi che è chiamato, in questa parabola, a lasciarsi interrogare, interpellare, colpire nell’incontro con l’altro: ‘che cosa posso fare io per te?’: «Va’ e anche tu fa’ così».

Come vedete qui Gesù non dà risposte pre-fabbricate, né formula programmi politici, ma mette in gioco la nostra libertà e responsabilità.  Al punto che, nelle nostre relazioni con l’altro, noi decidiamo della nostra relazione con Dio!