La pornografia del dolore: la sofferenza dei bambini “sbattuta in prima pagina” per raccogliere 9 € al mese

raccolta fondiImmagini forti giustificate dal fine umanitario o “pornografia del dolore”? Si è scatenato un intenso dibattito nel mondo del Terzo Settore a proposito di uno spot lanciato da una organizzazione non governativa internazionale che, nell’ambito della sua campagna contro la malnutrizione, mostra immagini strazianti di bambini fortemente deperiti, con il respiro ansimante, lo stomaco gonfio, le costole a vista e lo sguardo disperato. E non è la prima volta: già dal 2013, infatti, la stessa ong diffonde sui più importanti mezzi di comunicazione messaggi simili, con protagonisti bambini africani in evidente stato di malnutrizione. Adesso è toccato al piccolo John, 2 anni, la cui mamma – si dice nello spot – “fa quel che può per nutrirlo, ma non c’è cibo in casa”. Pertanto, come milioni di altri piccoli africani, anche lui rischia di morire di fame. Da qui la richiesta, da parte della ong, ai telespettatori di fare una donazione per aiutare l’organizzazione a fermare la fame e salvare molte vite.

Immediate le critiche provenienti da buona parte del Terzo Settore. È proprio necessario utilizzare immagini così forti, coinvolgendo un bambino malnutrito? Per la rivista “Africa, missione e cultura” si tratta di “immagini strazianti che durano un’eternità” e che hanno il solo scopo di “impietosire i telespettatori per strappar loro 9 euro al mese”.

Immediato il tentativo di giustificarsi da parte della ong promotrice dello spot. “Proprio perché inaccettabili – ha detto il direttore dei programmi internazionali -, sono immagini anche giuste da trasmettere con l’obiettivo di sensibilizzare e spingere le persone a reagire con indignazione. Siamo consapevoli che quelle immagini possono toccare la sensibilità di qualcuno. Ma a nostro giudizio vanno trasmesse perché il grido di quei bambini non può restare inascoltato”.

Sulla questione Aibinews chiede il parere ai suoi lettori tramite un sondaggio.

Nel dibattito, allargato al tema generale dell’utilizzo delle immagini nella raccolta fondi, è entrata anche l’AOI (Associazione delle organizzazioni italiane di cooperazione e solidarietà sociale), tramite il suo direttore esecutivo Nino Santomartino. Il quale ha ricordato come il problema non sia “solo rilevante sul piano della comunicazione ma soprattutto su quello etico” e pertanto “va affrontato e risolto con urgenza: in nome della credibilità delle organizzazioni non profit e della loro reputazione nei confronti dei partner e dei donors”.

Quello che la ong promotrice degli spot in questione arriva a definire “un nuovo approccio” per il fundraising sembra invece soltanto il riproporre il crudele cliché dello scheletrino africano, infallibile mezzo della spettacolarizzazione della sofferenza. Con il risultato di fare “tabula rasa di tutto un ormai lungo e articolato processo di riflessione sull’utilizzo delle immagini di dolore”, scrive ancora “Africa, missione e cultura”. “E’ lecito calpestare la dignità di alcuni minori – si chiede provocatoriamente – violando la loro intimità e mettendo a nudo la loro sofferenza?”

In casi come questi, insomma, sembra che la Carta di Treviso, il codice deontologico dei giornalisti italiani relativo alla tutela delle informazioni sui minori, valga solo per gli italiani o per i bambini bianchi. Nonostante le tante parole spese negli ultimi anni per cercare una nuova narrazione dello sviluppo e le tante buone pratiche di cambiamento, troppo spesso la comunicazione si ostina a puntare su luoghi comuni e stereotipi legati alla povertà, alla malnutrizione e alla condizione dell’infanzia nei Paesi più poveri. Questo perché in Italia, a differenza di quanto accade per esempio in Irlanda, ancora non esiste un codice di condotta concordato a livello settoriale dalle ong sul fronte dell’etica della comunicazione che fissi regole minime su come veicolare immagini e messaggi relativi ai contesti in cui le organizzazioni di Terzo Settore operano.

Per questo, Info-Cooperazione, ricorda Santomartino di AOI, invita a una riflessione che coinvolga sia i dirigenti e la governance delle ong, sia i loro fornitori: agenzie di comunicazione, creativi, fundraiser, fotografi, giornalisti e copywriter. “Alcuni tentativi nel passato sono stati fatti – scrive il direttore esecutivo di AOI -. Si dovrebbe riprendere il cammino dai passi già compiuti, adeguando le proposte al contesto di oggi”. L’obiettivo è la creazione di un tavolo di lavoro tra organizzazioni non profit, realtà della comunicazione e dell’informazione, professionisti, consulenti e ricercatori impegnati nel sociale che arrivino ad aggiornare il Titolo VI del Codice di autodisciplina della Comunicazione commerciale, quello riferito alla realizzazione di campagne promozionali. Un risultato che si può ottenere solo attraverso una vera assunzione di responsabilità da parte della società civile. In modo che finalmente non venga più “sbattuto il mostro in prima pagina. Anche se il mostro, in questo caso, è la vittima”.

 

Fonte: Redattore Sociale, “Africa, missione e cultura”

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