Ripensando a noi stessi comprenderemo quante volte Dio ci ha mostrato la sua misericordia

figliol-prodigoIn occasione della XXIV Domenica del Tempo Ordinario, la riflessione del teologo don Maurizio Chiodi prende spunto dai brani del libro dell’Esodo (Es 32,7-11.13-14), della Prima Lettera di san Paolo apostolo a Timòteo (1Tm 1,12-17) e del Vangelo secondo Luca (Lc 15,1-32).

 

Questa domenica di fine estate, nel tempo liturgico ordinario, ha per noi un significato molto particolare, in questo anno giubilare della misericordia.

Infatti, al centro della Parola di Dio oggi, in una parola «degna di fede e di essere accolta da tutti» – dice Paolo – c’è la misericordia, la buona notizia, o il vangelo, della misericordia!

Dice ancora l’apostolo che lui è il primo dei peccatori, lui che era stato «un bestemmiatore, un persecutore e un violento». Ma ora egli ha «ottenuto misericordia» e Dio ha voluto mostrare in lui «tutta quanta la sua magnanimità», tutta la grandezza del suo Spirito. Dio si è fidato di lui, Paolo, e ha voluto che, dopo tanta lontananza da Lui, ora fosse al suo servizio.

Al posto di Paolo, ciascuno di noi è invitato a mettere se stesso. Ciascuno di noi sa come, nella sua vita, Dio ha mostrato la sua straordinaria abbondanza di misericordia e di grazia!

È con questo spirito che ci disponiamo ad ascoltare nel profondo, a meditare, a pregare il bellissimo e luminoso capitolo quindici del Vangelo  di Luca.

Qui vengono raccolte tre parabole con cui l’evangelista racconta, con le parole di Gesù, la misericordia di Dio.

L’occasione per questi tre gioielli è un’accusa che farisei e scribi rivolgono contro Gesù: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro».

Questi zelanti e scrupolosi ‘osservanti’ della Legge erano infastiditi dal comportamento di Gesù. Lo giudicavano troppo ‘buono’, troppo accogliente nei confronti dei ‘peccatori’. A questi scribi e farisei non veniva nemmeno lontanamente in mente che, forse!, tra questi peccatori potevano esserci loro stessi. No, loro erano sicuri di sé. I peccatori erano gli altri!

Gesù risponde a queste accuse, a queste mormorazioni contro di lui – ‘mormorare’ era uno dei verbi con cui, nell’Antico Testamento, veniva espresso il peccato di Israele contro Dio! –, non certo difendendo se stesso o giustificandosi. Lui non ha bisogno di giustificarsi. Lui è ‘il Giusto’ per eccellenza!

Gesù risponde di sé parlando di Dio. Nel suo volto, infatti, nelle sue parole, nei suoi gesti, nel suo sedersi a tavola con peccatori e pubblicani, si annuncia il volto, la parola, l’agire di Dio, che è misericordia.

Molte volte, anche oggi, noi ci dibattiamo nell’alternativa tra la giustizia e la misericordia. Non riusciamo a comprendere come Dio possa essere nello stesso tempo giusto e misericordioso, perché questi due modi di agire ci sembrano    in contrasto tra loro. Non riusciamo a comprendere come Dio possa dare a ciascuno secondo le sue opere – pensiamo che questa sia la giustizia di Dio – e insieme come possa perdonarci con una misericordia infinita sovrabbondante e smisurata!

E allora finiamo per oscillare paurosamente tra l’immagine di un Dio ‘giudice’ incorruttibile e un Dio troppo buono e indulgente.

Con queste contradizioni, mettiamoci davanti alla Parola di Dio di questo giorno.

A prima vista – e molti nella storia, anche tra i cristiani, hanno pensato così, sbagliando! – sembrerebbe che la stessa Parola di Dio oggi confermi questa scissione o questo ‘doppio volto’ di Dio. Da una parte sembra essere il Dio di Mosè, che si accende di ira contro il suo popolo, «dalla dura cervice», cioè con un collo duro, che rifiuta di inchinarsi dinnanzi a Lui, un Dio che vorrebbe sterminare questo popolo testardo e infedele.

Dall’altra parte sembra esserci questo Padre misericordioso, di cui parla Gesù, oppure questo pastore così strano che, per andare «in cerca» di una pecorella «perduta», «lascia» le altre «novantanove nel deserto» oppure questa donna di casa che butta via un sacco di tempo per recuperare una sola moneta.

Nelle tre splendide parabole di Gesù sembrano esserci una stranezza, una esagerazione e un eccesso che, da un certo punto di vista, ci infastidiscono e sollevano molte discussioni.

“Ma scusa, ci verrebbe da chiedere a Gesù, questo padre così misericordioso verso il figlio giovane, che si allontana da casa, vive «in modo dissoluto» e poi torna, per interesse, e viene accolto con tutti gli onori, ecco questo padre così misericordioso non è forse ingiusto nei confronti dell’altro figlio, che lo ha servito per tanti anni, fedelmente, senza mai disobbedirgli, e che viene lasciato fuori dalla mega-festa, mentre lui è ancora nei campi a lavorare e a faticare?” “Ha ragione – pensiamo noi! – questo figlio a non voler entrare alla festa!”.

E poi – analogamente – ci verrebbe da obiettare a Gesù: “ma insomma, questo pastore che abbandona le novantanove pecore, con il rischio che anche queste si disperdano e si perdano, è uno scriteriato! Chi di noi si comporterebbe così?!”.

Insomma, rispondendo alle obiezioni degli scribi e dei farisei, queste tre parabole di Gesù sembrano confermarle!

Mettiamoci davvero in ascolto di questa splendida parola, che è Gesù.

Lui parla di una pecora perduta, di una moneta smarrita, di un figlio che, per ingordigia, per illusione, per egoismo e per ingratitudine, non solo se ne è andato da casa, ma alla fine ha perso tutto.

In fondo, con queste parole Gesù dà nome al peccato dell’umanità. Con tre immagini semplicissime, tratte dalla vita quotidiana, Gesù ci dice l’abisso profondo del peccato e della colpa.

Peccare è smarrirsi, perdersi, cacciarsi in pericoli mortali. Peccare è cadere nella trappola che ci fa illudere di poter fare a meno di Lui, inseguendo una ‘vita facile’, false amicizie, comportamenti libertini …

Peccare è, come dice il libro dell’Esodo, «allontanarsi» dalla via del Signore, farsi un’immagine falsa di Lui, un’immagine costruita con le nostre mani, una ‘maschera’ dietro la quale si nasconde il nostro volto.

Peccare è adorare se stessi, il proprio volto, nascondendolo perfino a se stessi. Ecco, è a quest’uomo peccatore che Gesù, al culmine della rivelazione dell’Antico Testamento, annuncia la misericordia.

Già l’Esodo annunciava la pazienza di Dio verso il suo popolo, una pazienza infinita, che fu proclamata soprattutto dai profeti dell’esilio.

Di questa pazienza di Dio Gesù annuncia il compimento. È la pazienza del pastore che si mette in cerca della pecora perduta e poi la trova, e pieno di «gioia» se la carica sulle spalle e poi fa festa con gli amici e i vicini.

È la pazienza di questo padre che attende, che corre incontro, inondato di compassione, che si getta al collo di questo figlio disgraziato, lo bacia, fa festa con e per lui.

Questa infinita misericordia di Dio è un dono che Lui ci fa.

Ma è evidente che questo dono ci apre ad una relazione con Lui. Questo dono attende la risposta della nostra libertà, con l’impegno, la conversione e la gratitudine della vita.

Questo è ciò che Dio attende da noi.

Dio non attende da noi la ‘perfezione’ di una vita in cui, apparentemente, tutto è apposto, ma che in realtà è lontana da Lui.

Il fratello maggiore è un perfetto osservante della Legge, ma di suo padre non gli importa nulla. È tutto chiuso su di sé. Non sa che questa misericordia sarebbe anche per lui, se lo volesse.

Allora, anche noi confessiamo che ci siamo smarriti e siamo (stati) tanto lontani.

Accogliamo dunque con gratitudine e gioia il Vangelo della misericordia di Dio.