Quei lunghi viaggi nella terra “maledetta”, insieme ai rifugiati siriani

rifugiati siriani turchia_OKIl lungo tragitto in pullman tra Gaziantep e Antakya è sempre fonte di riflessione, per me. Il naso attaccato al finestrino, mi perdo seguendo il filo di mille storie che scorrono all’esterno, come una specie di film dai fotogrammi sin troppo vividi e reali. Dagli anziani turchi seduti fuori dai bar, che fumano il narghilè e sorseggiano il chai, ai bambini che vendono pane davanti ai forni, alle donne che si trascinano stancamente sotto il sole, un figlio in braccio e gli altri attaccati alla gonna.

Ogni tanto il pullman si ferma, carica qualcuno, ed ecco che le nostre vite, seppur per breve tempo, s’incrociano fra loro.

Spesso mi soffermo con particolare attenzione sulle famiglie di siriani. Si riconoscono subito: non è solo una questione d’aspetto fisico, abbigliamento o lingua, quanto di energia che emanano. E il più delle volte non è un’energia positiva.

Mi capita anche di vedere famiglie intere, composte da donne, bambini e anziani, che viaggiano con sacchi pieni di vestiti e oggetti personali: a parlare per loro sono i silenzi, gli sguardi assenti. Fissano la strada, ma l’unica direzione che interessa loro è quella che prenderà la loro vita; lo si avverte, lo si percepisce.

Ogni volta mi pongo inevitabilmente mille domande, molte delle quali – già lo so – rimarranno senza risposta: quale sarà la destinazione finale di queste persone? Avranno un appoggio in Turchia? Saranno in grado di trovare un lavoro, mantenersi e mandare i propri figli a scuola? Quasi mi verrebbe da avvicinarle per un’intervista, ma ho conosciuto abbastanza rifugiati in Turchia, nell’ultimo anno, per sapere ormai che tutte le loro storie, per quanto differiscano nei dettagli, hanno un unico, comun denominatore: la rassegnazione. I siriani raramente drammatizzano, hanno una grande dignità. Ma la guerra ha portato via loro quasi tutto, e benché si aggrappino alla speranza di poter tornare un giorno alle proprie case, la sola cosa che conta per loro è sopravvivere e tirare avanti, in un modo o nell’altro. Finché la guerra non sarà finita, inshallah.

C’è un grosso campo di rifugiati tra Gaziantep e Antakya, dove quasi sempre ci fermiamo; davanti ai cancelli stazionano di solito un certo numero di siriani con i propri bagagli, in procinto di ripartire per chissà dove. Per una famiglia che scende dal pullman, un’altra ne sale, portando con sé altre storie, altre esperienze, che io posso solo immaginare.

Poi la strada piega verso la Siria, avvicinandosi al confine, e mi soffermo a osservare le colline che corrono lungo la frontiera; oltre quelle alture, la vita si fa davvero dura, per milioni di persone ancora intrappolate in un conflitto devastante. Noi di Amici dei Bambini lo sappiamo bene, perché da oltre un anno portiamo avanti progetti di emergenza a supporto della popolazione di Idlib, in condizioni non facili. E tutti i nostri sforzi sono concentrati proprio nell’aiutare le famiglie siriane a rimanere nel proprio paese, a non arrendersi, a non rassegnarsi a un futuro da sfollati, pieno di incognite. Perché anche da questa parte del confine, dove i bombardamenti non arrivano, le difficoltà da affrontare sono tante, per chi è stato costretto ad abbandonare la propria casa e il proprio mondo.

E mi tornano alla mente le parole di una collega turca, che di recente mi ha detto: «Prima la questione curda, poi la guerra in Siria e il dramma dei rifugiati. Sono arrivata a pensare che, per una ragione o per l’altra, questa parte del nostro paese sia maledetta

 

Luigi Mariani
Country coordinator di Ai.Bi. in Siria

 

Ai.Bi. ha lanciato la prima campagna di Sostegno a Distanza per aiutare le famiglie siriane a restare nel proprio paese e continuare a crescere i propri figli in condizioni dignitose, nonostante la grave crisi. Cibo, salute, scuola, casa, gioco: queste le cinque aree d’intervento. Per avere maggiori informazioni sull’iniziativa e per dare il tuo contributo, visita il sito dedicato.