Se vogliamo possedere tutto, dimenticando che tutto è dono, viviamo nella paura di morire

diavolo tenta gesùIn occasione della prima domenica di Quaresima, la riflessione del teologo don Maurizio Chiodi prende spunto dai brani del libro della Genesi (Gn 2,7-9; 3,1-7), della Lettera di san Paolo apostolo ai Romani (Rm 5, 12-19) e del Vangelo secondo Matteo (Mt 4,1-11).

 

Dopo il mercoledì delle Ceneri e i primi giorni di Quaresima, oggi celebriamo la prima domenica di questo tempo prezioso della vita cristiana. Un cammino di quaranta giorni, che ci conduce fino alla Pasqua di Resurrezione, giorno di luce sfolgorante dopo le tenebre del Venerdì Santo.

La Parola di Dio, che siamo ascoltando in questa celebrazione dell’Eucarestia, ci accompagna in questo cammino dietro e con Gesù. Oggi potremmo sintetizzare in una battuta il senso di questo cammino: mentre l’umanità ha trasformato il giardino in un deserto, così l’umanità divina di Gesù ha ri-trasformato il deserto in giardino.

Paolo riassume così questo passaggio straordinario, che è la fonte della nostra speranza: «se infatti per la caduta di uno solo tutti morirono, molto di più la grazia di Dio, e il dono concesso in grazia del solo uomo Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti». Sul peccato, sul male, che è entrato nel mondo per decisione della nostra libertà, si è riversata la grazia del perdono di Gesù, con un’abbondanza che ha colmato le nostre ombre con la luce potente del dono di Dio!

La prima lettura e il Vangelo sono i due estremi di questa storia di amore tra Dio e l’umanità, una storia che passa attraverso il nostro tradimento, per giungere alla pienezza e alla sovrabbondanza della grazia, in Gesù.

Plasmata della «polvere del suolo» (adamah) l’umanità (adam) è fragile e destinata a tornare in polvere, nella morte, come ci è stato ricordato il Mercoledì delle Ceneri, con l’imposizione di quel bel rito: «ricordati che sei polvere e polvere ritornerai».

Non c’è nulla di triste in queste parole, ma al contrario un profondo realismo. Siamo fatti di terra, di materia: eppure siamo stati plasmati da un grandissimo ‘artigiano’, un vasaio, che ci ha dato, nelle nostre forme, l’impronta della sua bellezza.

In più, questo mirabile maestro – la Genesi fa suo un linguaggio narrativo molto concreto, per raccontare l’opera creatrice di Dio, che pure sorpassa ogni nostra immaginazione! – ha ‘soffiato’ nelle «narici» dell’umanità il suo «alito di vita» rendendolo così partecipe di sé. Gli ha donato il suo spirito, affidandolo alla sua libertà e rendendolo capace di relazione con Lui.

Poi il Signore Dio colloca l’umanità in uno splendido giardino (‘paradiso’), ricco di «ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare». Con due tratti, qui, è descritta la bellezza e la bontà del creato: un giardino, ricco di ogni dono.

L’albero della vita, posto nel mezzo, sta lì a ricordare che l’umanità non è fonte della sua vita. L’ha ricevuta in dono.

L’altro albero, che gli è accanto, non è un albero ‘da frutta’, ma è «l’albero della conoscenza del bene e del male». Un albero simbolico, che esprime con un’immagine plastica il grande compito della libertà umana. Non siamo noi i creatori del bene e del male, e cioè di tutte le cose. Tutto è dono. Tutto è grazia.

Ma a noi questo dono viene affidato, perché decidiamo che cosa farne.

Se vogliamo possedere tutto, dimenticando che tutto è dono, allora perdiamo il dono e viviamo nella paura di morire. Se non ci fidiamo della parola di Dio, se non ci fidiamo della sua promessa, perdiamo tutto.

Questa è la posta in gioco, sublime, della nostra vita: ci fidiamo o no della Parola oppure pretendiamo di essere noi i padroni della nostra vita, nella pretesa illusoria di diventare ‘come Dio’?

Sta qui il rischio e poi la trappola, l’ubriacatura della libertà umana, quando non si fida di colui che ci ha plasmato e circondato di ogni bene. Come un giardino!

Se non ci fidiamo di Dio, come l’uomo e la donna del racconto di Genesi, ci accorgiamo con vergogna della nostra povertà – «conobbero di essere nudi» -.  Dopo aver sognato di ‘rubare il cielo’, ci troviamo sprofondati negli abissi del sospetto, della paura, della colpa.

È in questo deserto che arriva Gesù.

Il deserto, in cui egli viene condotto dallo Spirito, è il simbolo concreto di una terra diventata luogo di prova, di fatica, un luogo arido, da lavorare nello sforzo e nel sudore, un luogo dove proviamo la fame, la sete, un luogo dove i nostri desideri rimangono insoddisfatti e sempre sospesi, un luogo difficile da attraversare.

È in questo luogo che Gesù ‘sta’, per quaranta giorni.

Un tempo simbolico, come lo è per noi la Quaresima prima della Pasqua.

Gesù sceglie di stare in quel luogo arido, che è il deserto.

Lì digiuna. Prova il morso della fame e della sete.

Si immerge nell’abisso della prova, laddove sei messo crudamente davanti all’alternativa: “mi fido o no di Dio? Affido a Lui la mia libertà oppure lo guardo con sospetto, come un dio geloso, nemico della mia felicità, un dio legalista che mi circonda di lacci e lacciuoli, perché è geloso del mio desiderio di felicità?”.

Le ‘tentazioni’ di Gesù ricordano da vicino quelle dell’adam davanti all’albero della conoscenza del bene e del male: «l’albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza».

La prima tentazione è quella di sostituire il desiderio della Parola di Dio, la parola che esce dalla sua bocca, con il cibo, il pane.

Riempirsi la bocca di ogni bene, per soddisfare ogni desiderio, porta a dimenticare il gusto della Parola di Dio. Ci riempiamo di altro, illudendoci di poter salvare così la nostra vita, il nostro desiderio.

La seconda tentazione – la terza nel Vangelo –  ha a che vedere con gli occhi, la vista.

Condotto «sopra un monte altissimo», Gesù può vedere tutto, «tutti i regni del mondo e la loro gloria». Da qui nasce la tentazione del potere o meglio dell’abuso del potere, la tentazione dell’uomo ubriaco di sé, che pretende di dominare su tutto, in modo dispotico.

Quanti esempi abbiamo di questo, anche oggi, nelle piccole cose, come anche tra i grandi della terra!

In questo modo adoriamo noi stessi. Ci trasformiamo in un piccolo ridicolo idolo, nella vana illusione di possedere tutto. Prostrandoci davanti ad un piccolo idolo, che è la maschera di noi stessi, perdiamo la relazione con il Dio vivente, che ci ha plasmato a sua immagine.

La terza tentazione, dalla Genesi, la possiamo ricondurre alla seconda del Vangelo di Matteo. È la tentazione che riguarda la saggezza, la pretesa di diventare noi la misura di tutte le cose.

Nel Vangelo, Gesù è condotto «sul punto più alto del tempio». Lì, il diavolo lo sfida, lo mette alla prova, in modo sottilissimo. Citando diabolicamente la Sacra Scrittura, sfida Gesù: “Buttati giù, io ti assicuro – dice lui, mentre cita il Salmo – che Dio verrà a salvarti”.

Così lo vuole costringere a sfidare Dio, a essere lui il criterio, non il Padre.

È il contrario della fede.

Invece di affidarmi a Dio, lo sfido: “vediamo se sei davvero buono, se davvero hai cura di me, come per costringerti a dimostrarmelo”.

Gesù risponde, ogni volta, citando la Parola, lui che è la Parola fatta carne. Una Parola, la sua, amata e ascoltata.

È la Parola del Padre.

Nella sua obbedienza amante, Gesù colma in modo sovrabbondante la disobbedienza dell’umanità.

La grazia ricopre il peccato, con l’abbondanza di un amore che ci raggiunge nell’abisso, per ricondurci alla luce!