Un’adozione riuscita. Simone, il calciatore che lavora per i bimbi abbandonati di Manila

simone rotaPer Simone il Calcio è stato prima una passione, poi un lavoro, adesso uno strumento per aiutare i bambini abbandonati di Manila.

La sua storia è di quelle che ti riappacifica con il pallone. Un mondo mistificato dove troppo spesso la fanno da padrone vicende solo negative: casi di tifosi razzisti o violenti; partite truccate; compensi astronomici per quelli che è bene ricordarlo sono ‘semplici’ giocatori. Personaggi che non sempre sono all’altezza dell’ammirazione che per loro nutrono i bambini.

Il milanese Simone Rota, calciatore di 30 anni, è di tutt’altra pasta. Dotato di un grande autocontrollo, fin da piccolo, lui, difensore centrale o terzino destro, riesce a divertirsi e basta nel campo di gioco. Senza farsi turbare dagli insulti razzisti a lui indirizzati quando sbagliava tiro.

Intervistato dal Corriere della Sera, spiega alla giornalista Arianna Ravelli: “Da piccoli non c’è che il pallone per fare amicizia”.  Senza montarsi la testa inanella una serie di record. Diventa il primo giocatore di origine filippina in un campionato professionistico in Italia e veste anche la maglia della Nazionale di Serie C.

Già, Simone è nato a Manila. Quando aveva sei mesi è stato adottato insieme a un’altra bimba da papà Maurizio e mamma  Marilena. I suoi tratti somatici fanno sì che durante le partite anche da adulto continui a sentire cori razzisti, che lo etichettano ‘extracomunitario’ quando sbaglia, ma lui minimizza:  «Allo stadio insultano tutti».

Intanto la sua società, la Pro Sesto, fallisce («Aspetto ancora un anno di stipendio»); accetta di indossare la maglia del Manfredonia e poi del Lugano, fino alle squadre di serie D, dove l’impresa è farsi pagare.

Una sera di dicembre del 2013, arriva la svolta. Una squadra filippina, l’Fc Stallion, lo contatta su Facebook per andare a giocare lì. In una settimana, mette le sue speranze in valigia e parte, senza nemmeno un contratto certo. «La motivazione principale- confida Simone- era che volevo vedere il Paese dove ero nato».

Nelle Filippine trova tutto quello di cui aveva bisogno, senza neanche saperlo. La Nazionale, intanto («Un’esperienza che non mi sarei mai sognato di fare»), ma molto altro. Per un mese e mezzo, vive da solo.

Poi i suoi genitori gli danno un numero di telefono e lui si fa coraggio: va a visitare la missione da dove tutto è cominciato. Alcune  suore si ricordano ancora di lui, e lì tra i bambini abbandonati di Manila trova una pace inaspettata. La sua vita prende un’altra piega.

Si trasferisce nel Centro, dove ancora adesso vive con le suore e 24 bambini. Torna in Italia quando sente la nostalgia per i suoi genitori, ma la sua vita è lì.

«Stare con i bambini dà una grande soddisfazione, mi sento responsabilizzato. Si vede che avevo bisogno di questo. Non ho trovato da chi sono nato 30 anni fa, ma non sono venuto qui per questo».

La sua giornata si divide tra allenamenti e pannolini. Alla giornalista racconta: «Mi alzo alle 4.45, gli allenamenti sono alle 6, poi fa troppo caldo. Verso le 10.30 torno alla missione. La cosa più difficile? Quando un bambino piange e non capisci perché! A Laguna, dove le suore hanno una pensione con 1.500 bimbi, ho appena aperto una scuola calcio». Sui muri della missione ci sono i poster di Simone. «Per i bimbi non sono un idolo, ma un fratello maggiore». E questo gli piace molto di più.

 

Fonte: Corriere della Sera