La Grazia dell’accoglienza fa accadere l’impossibile!

Nella XXVII settimana del Tempo Ordinario la riflessione del teologo Don Maurizio Chiodi, prende spunto dalla Prima Lettura Dal libro del profeta Abacuc Ab 1,2-3;2,2-4,  dalla Seconda Lettura Dalla seconda lettera di san Paolo a Timòteo 2 Tm 1,6-8.13-14 e dal Vangelo Dal Vangelo secondo Luca Lc 17,5-10.

La Parola di Dio, in questa domenica, è un forte richiamo alla fede, perché ne mette in rilievo alcuni tratti fondamentali e molto belli.

Prima di tutto il profeta Abacuc: «Fino a quando, Signore, implorerò aiuto e non ascolti, a te alzerò il grido: «Violenza!» e non salvi?». Questo grido, questa invocazione è drammatica e dice molto bene come la fede sia, spesso, segnata da un’attesa, lunga, difficile, che diventa un tempo di prova, un tempo nel quale la fede stessa è messa a repentaglio, insidiata fortemente.

La nostra fede non è mai un possesso tranquillo, ma non tanto per i dubbi ‘teorici’, che ci possono venire sull’esistenza di Dio o su questo o quel ‘dogma’ del cristianesimo.

La fede, piuttosto, è continuamente messa alla prova dai tempi difficili della vita, quando noi invochiamo aiuto e il Signore non ci ascolta, come dice il profeta, lascia cadere la nostra supplica, sembra che non ci sia … perché Dio non può essere così distratto, non può essere assente!

Il profeta dice ancora che egli grida contro la violenza sulla faccia della terra o contro di lui, ma il Signore non interviene: perché «non salvi?».

Perché anche oggi, dinnanzi a tutto il male, il Signore sembra sordo, assente, distratto, indifferente? «Perché – si chiede con profonda angoscia il profeta – resti spettatore dell’oppressione?».

Ci sono momenti della vita in cui Dio tace, non risponde alle nostre suppliche, alle nostre preghiere, ai nostri lamenti.

Dov’è questo Dio? È davvero affidabile?

Il profeta, e noi con lui e come lui, dice che starà lì ad aspettare, mettendosi di «sentinella» – al versetto 1 del capitolo 2 di Abacuc – «per vedere che cosa mi dirà, che cosa risponderà ai miei lamenti».

L’attesa mette duramente alla prova la fede, la mette in crisi. Tutti noi siamo toccati, in un modo o nell’altro, da questa crisi, che nasce in noi quando il Signore sembra non risponderci.

Allora, il compito della fede è di stare vigilanti. Tendere l’orecchio alla Parola.

Finché, scrive il profeta, «il Signore rispose».

Ecco, alla fine, l’attesa ha una fine. La Parola risuona. Il Signore risponde al profeta e gli ordina di incidere bene, per iscritto, quello che gli sta per dire, così non correrà il rischio di dimenticare la Parola!

 

Ecco, questa Parola parla, «attesta un termine, parla di una scadenza e non mentisce».

Il tempo dell’attesa non sarà illimitato, avrà fine.

E se anche sembra che questo ‘termine’ non arrivi mai, la Parola chiede di attenderlo con certezza e ferma speranza. «se indugia, attendila, perché certo verrà e non tarderà».

La fede sta proprio in questo atto di fiducia, nella prova, quando l’attesa sembra senza risposta, quando Dio sembra tacere, quando non ci sono segni della sua presenza e della sua azione, quando tutto questo sembra una pia illusione, per renderci più sopportabili le durezze e le fatiche della vita.

Ecco, nella fatica della prova, ci sono due strade, due vie, due possibilità. Noi dobbiamo scegliere una delle due, a noi spetta la responsabilità della decisione: da una parte, dice il profeta, c’è «colui che non ha l’animo retto», che non cammina sulla via della lealtà, della rettitudine, della giustizia e della fraternità.

Costui soccombe. Chi non si fida muore. La sua vita diventa impossibile. L’aria si fa irrespirabile. Tutto sembra travolgerlo. Non c’è fede e speranza per lui.

Invece, al contrario, «il giusto vivrà per la sua fede».

Questa fede, per la quale chi è giusto soltanto vive, questa fede non è facile, non è la soluzione semplicistica di tutto, perché non toglie le prove e non abolisce le fatiche. Ma questa fede permette al credente di vivere, di attraversare le prove, di attendere il ‘termine’ dell’attesa. Questa fede tiene accesa la luce della speranza. Sa che non rimarrà delusa. Non sa fino a quando dovrà aspettare, ma sa che l’attesa non è vana, anche se adesso questa attesa gli sembra un azzardo, quasi una frustrazione.

La Parola gli assicura, in mille modi, che l’attesa è ben fondata!

Così arriviamo al bellissimo brano di Vangelo. Mentre Gesù sta parlando ai discepoli – li sta invitando ad imparare la logica del perdono! – a un certo punto questi, improvvisamente, gli dicono, con un grido di supplica e quasi di dolore: «Accresci in noi la fede!».

Forse i discepoli sono spaventati dalla difficoltà a perdonare o forse sono tutte le parole di Gesù che fanno nascere in loro questa richiesta oppure sono i prodigi che vedono compiere da Gesù a far loro richiedere una fede maggiore.

Anche noi, forse, abbiamo molte volte rivolto questo ‘grido’, questa invocazione al Signore.

Abbiamo fede, sì, però ci sembra di non averne abbastanza, perché vacilla o è tiepida o poco convinta, troppe volte, quasi timorosa, vacillante. Ci sembra – spesso! – che la nostra fede sia infedele.

Gesù risponde con due piccole, e strane, parabole.

La prima contiene un’immagine paradossale. Chi ha fede, anche una fede piccola «quanto un granello di senape», se dicesse a un gelso – c’era lì vicino, proprio un gelso! – di sradicarsi e di piantarsi «nel mare», questo accadrebbe: «ed esso vi obbedirebbe».

L’immagine, molto provocatoria, ci dice che la fede è la forza di attendere l’impossibile. Quale sia questo impossibile, noi non lo sappiamo, noi lo attendiamo come un dono di Dio.

 

Forse sentendo questa Parola di Gesù, in noi nasce una specie di scoraggiamento. Come se ci dicessimo: allora non ho proprio fede, perché quante volte ho chiesto una cosa e questa non è accaduta!

Se non succede quel che domando, allora non ho nemmeno la fede grande come un granello di senape!

Ma non è questo ciò che dice Gesù!

La sua Parola ci chiede di sperare nell’impossibile e ci assicura che solo Dio sa quale è questo impossibile. A noi è chiesto di attendere, nella prova, che Lui ci doni quel che gli abbiamo chiesto, anche se a noi sembra altro da quel che gli abbiamo domandato!

La seconda piccola parabola, in sostanza, dice che un servo ‘serve’, presta servizio al suo signore e, dopo aver svolto bene il suo compito, non aspetta certo di essere ringraziato. «Ha eseguito gli ordini ricevuti». Anche qui c’è un paradosso. Non è che Gesù ci dice che non dobbiamo ringraziare, quando qualcuno – un sottoposto – ha fatto qualcosa che gli abbiamo chiesto. Nemmeno ci dice, Gesù, che non dobbiamo attendere un grazie in situazioni simili.

Gesù non ci parla, qui, di Dio, ma della nostra relazione con Lui.

La fede sta proprio in questo: non è la pretesa e nemmeno l’attesa che Dio ci ringrazi, come se noi, davanti a Lui, avessimo qualche merito, qualche ragione da far valere. Non è Dio che è grato a noi! Siamo noi che siamo grati a Lui!

La fede è essenzialmente gratitudine, riconoscimento che Dio ci fa grazia.

Per questo noi gli siamo grati.

La sua grazia ci sorprende.

Fa accadere l’impossibile.

Noi gli siamo riconoscenti per questo, senza misura. Ci fidiamo di Lui più di noi stessi. Siamo onorati di essere al suo servizio. È servire a Lui il nostro onore.

Perciò siamo servi che non avanzano pretese – in questo senso ‘inutili’.

La nostra attesa è servire.

La nostra fede sta nella gratitudine di chi scopre di essere amato, graziato!

Don Maurizio Chiodi,