Accesso alle informazioni sulle origini: “No per gli adottati, sì per i figli dell’eterologa”

aibi gDavanti alle numerose pressioni per facilitare l’accesso del figlio adottivo alle informazioni sulle sue origini e la sua identità, Amici dei Bambini ribadisce il suo secco “no”. Una questione fortemente dibattuta, questa, anche nei giorni dell’evento fiorentino dedicato alla realtà dell’adozione, “Siamo adottati e stiamo bene”, organizzato da Ai.Bi. e dall’Associazione culturale Vittorio Rossi-LibriLiberi. Proprio in occasione del secondo giorno di incontri, venerdì 10 ottobre, il vicepresidente di Ai.Bi. Giuseppe Salomoni è intervenuto al convegno di Firenze insieme ad alcuni figli adottivi: da parte di tutti, genitori e figli, è emersa la contrarietà a un accesso più semplice ai dati sulle origini.

Rendere più facile il reperimento delle informazioni relative alla propria madre biologica da parte dei figli adottivi, vorrebbe dire mettere in pericolo la nascita di tanti bambini la cui mamma non avrebbe intenzione di riconoscerli. “Quante donne – ha chiesto Salomoni nel corso del convegno fiorentino –, preoccupate dell’impossibilità di tenere a lungo nascosta la propria identità, potrebbero essere dissuase dalla possibilità di partorire in anonimato, scegliendo quindi di abortire?”

Una questione che tocca in prima persona i figli, i quali hanno dimostrato piena consapevolezza della propria scelta. “Sono stata nel mio Paese di origine – racconta una figlia adottiva, Tatiana –: non condanno chi mi ha messa al mondo e abbandonata, ma non mi interessa sapere chi fossero queste persone. Ora ho una vera famiglia: quella dei miei genitori adottivi che mi hanno donato l’amore che altrimenti non avrei avuto”.

Il peso di una tale questione è facilmente comprensibile se si pensa che ogni anno in Italia nascono 400 bambini non riconosciuti: tutte vite che rischierebbero di non venire al mondo, se alle loro madri non venisse garantito l’anonimato.

Discorso diametralmente opposto per i figli generati con la fecondazione eterologa. A questi non può essere negato il diritto di conoscere quali sono le loro origini, perché chi ha permesso la loro venuta al mondo lo ha fatto in piena consapevolezza e ha volontariamente cercato di farli nascere, assumendosene quindi la responsabilità.

Il problema dell’accesso alle informazioni sulle origini è tornato alla ribalta dal momento in cui la Corte Costituzionale, con la sentenza 278 del 2013, ha dichiarato illegittimo il comma 7 dell’articolo 28 della legge sulle adozioni, la 184 del 1983: comma che non consente l’accesso alle informazioni qualora la madre, al momento del parto, abbia usufruito del diritto a non volere essere nominata. Una decisione che costringe ora la Commissione Giustizia della Camera a legiferare nuovamente in materia. E tra le varie proposte di legge presentate, molte non tutelano il diritto all’anonimato della donna che sceglie di non riconoscere il neonato.

“Nell’intera delicata materia dell’adozione – sostiene il Forum Nazionale delle Associazioni Familiariè importante che si diffonda in misura sempre maggiore la consapevolezza dell’importanza della ‘relazione genitoriale’ rispetto al legame di sangue e alla ‘procreazione biologica’: appare inopportuno in questo quadro che lo Stato italiano, attraverso i propri organi legislativi, dia un segno nella direzione opposta, quasi nel senso dell’affermazione della prevalenza della relazione ‘di sangue’ rispetto a ogni altra esigenza e diritto”.

Posizione questa pienamente condivisa da Amici dei Bambini, che aggiunge: “Se riuscissimo a puntare l’attenzione sulla relazione come indica il legislatore – affermano il vicepresidente Salomoni e il consigliere Cristina Riccardi – con il passaggio dalla ‘potesta’ genitoriale alla ‘responsabilità’ genitoriale, che introduce anche il principio dell’unicità dello stato di figlio (anche adottivo), eliminando i termini ‘figli naturali’ e ‘figli legittimi’ che si sostituiscono con il termine ‘figlio’, forse riusciremmo anche a liberare molti minori bloccati dal legame di sangue in affidi sine die o in comunità educative fino alla maggiore età”.