famiglia: sostegno a distanza a scuola

Adozione internazionale. Come s’inserisce a scuola un bambino adottato? L’Italia è indietro, eppure le Linee di indirizzo ci sono

L’ingresso dei minori adottati a scuola non di rado è un “problema rovente“, come lo definisce Anna Guerrieri, vicepresidente del Coordinamento CARE, in quanto “basta poco per risvegliare un ricordo traumatico“, sottovalutare un disagio o non aiutare il piccolo a superare le proprie difficoltà di ambientamento e apprendimento

Fino ad esempi come quello di Giovanna, volontaria di Ai.Bi. e mamma di una ragazza peruviana oggi di 19 anni e di un ragazzo boliviano di 17, che racconta: “Quando la prof d’inglese ha rimproverato Naline per l’accento spagnolo, lingua che non parla, ho capito che la etichettavano come straniera. Mentre lei è italiana, ed è mia figlia

sostegno a distanza a scuolaLa storia adottiva resta per sempre“: parola di Giovanna, mamma di cuore di Naline, ragazza peruviana oggi di 19 anni, e di Paolo Felice, boliviano di 17. Che a furia di sentire ‘strafalcioni’ e di vivere sulla pelle dei propri figli gesti d’insensibilità o di disattenzione da parte degli insegnanti a scuola è diventata volontaria di Ai.Bi. Associazione Amici dei Bambini.Dalla maestra che chiedeva di portare le ecografie, alla prof d’italiano che in prima media ha dato un tema dove una bambina adottata scriveva alla madre naturale“, racconta, citando solo alcuni tra gli episodi più eclatanti che mettono in evidenza un ‘gap’ formativo dei formatori scolastici rispetto al tema dell’adozione. “Ma anche, al contrario, la maestra che con delicatezza ha spiegato a mia figlia che anche se non aveva lo stesso Dna dei genitori ce li aveva però nel cuore. Fino alle superiori: quando la prof d’inglese ha rimproverato Naline per l’accento spagnolo, lingua che non parla, ho capito che la etichettavano come straniera. Mentre lei è italiana, ed è mia figlia chiosa, ribadendo un concetto che dovrebbe essere stato da tempo raccolto dal mondo dell’educazione scolastica in Italia.
Invece, come racconta bene un articolo pubblicato su Io Donna.it, ancora oggi non di rado l’ingresso dei bambini adottati a scuola è un “problema rovente, come lo definisce Anna Guerrieri, vicepresidente del Coordinamento CARE. Che aggiunge: “Basta poco per risvegliare un ricordo traumatico: una maestra che chieda di portare la foto della mamma incinta o il braccialetto dell’ospedale, o che abbia scelto un libro di testo centrato sulla famiglia biologica“. In più di una circostanza è questione di sensibilità personale, come nel caso di Elvis, 6 anni, ritrovato tra i corridoi della scuola in un mare di lacrime dopo essersi perso: in quel caso, l’insegnante non aveva considerato che i bambini adottati hanno bisogno di “mantenere ritualità rassicurative: stesso posto in classe, in fila, possibilmente vicino all’insegnante. E bisogna porgere attenzione agli spostamenti tra gli spazi classe-corridoi“, spiega Guerrieri.
Eppure, un testo-guida per gli insegnanti davvero interessati alla questione ci sarebbe: le Linee di indirizzo per favorire il diritto allo studio degli alunni adottati emanate dal Ministero dell’Istruzione a fine 2014 e nel 2015 inglobate nella legge sulla Buona Scuola.
Prima ancora che il riferimento a esse, tuttavia, bisognerebbe sempre tener conto della specifica storia del singolo bambino prima di scegliere se e quando farlo entrare nell’universo della scuola. “I problemi sono di due tipi: di apprendimento e di comportamento”, spiega lo psicoterapeuta Francesco Vadilonga, direttore del CTA (Centro di Terapia dell’adolescenza): “Nel primo caso, le esperienze traumatiche vissute prima dell’adozione interferiscono con la motivazione, l’attenzione, la capacità di reinterpretare le emozioni e di elaborare le informazioni. Nel secondo, i bambini con un vissuto di abbandono fanno difficoltà a prevedere cosa succede e qualunque cambiamento nella routine li mette in ansia. Sono sensibili, piangono o si distraggono. Soffrono molto i passaggi, come quelli di ciclo scolastico“.
Difficoltà tipiche se non si ha all’interno dell’istituto un referente che faccia da ponte con le famiglie e non preveda una formazione specifica per i docenti. Un problema che non c’è, fortunatamente, per i bambini che seguono laboratori specifici in cui i bambini adottati possono raccontare, magari attraverso oggetti cari legati alla loro vita ‘precedente’ o a quella ‘nuova’ di figli senza sentirsi necessariamente ‘diversi’ dagli altri bambini e compagni di classe.
Fonte: Io Donna