Adozioni Internazionali: ma perché gli enti piccoli dovrebbero scomparire?

Mauro scrive:
Dire che gli enti devono aprire sedi in tutte le regioni è lo stesso che dire che gli enti piccoli devono scomparire? Perché se un ente più piccolo deve accettare solo coppie della sua regione, che magari è pure lei piccola, è probabile che scompaia naturalmente senza bisogno di fare una legge specifica per cancellarlo. Magari opera bene. Ma cosa significa ben operare? Quali sono i termini, i criteri, le caratteristiche?
Probabilmente non esiste una definizione condivisa di cosa sia un “buon ente”. Ma si potrebbe provare a cercarla e magari richiedere, questa volta per legge, che gli enti autorizzati vi si conformino. Come in ogni cosa ci vorranno dibattiti e compromessi ma forse il sudato e magari “imperfetto” risultato finale potrebbe eliminare la giungla dei particolarismi e ridare chiarezza, fiducia e consapevolezza a nuovi aspiranti genitori adottivi.

Caro Mauro,
la presenza di una sede in ogni Regione dove si lavora è questione non completamente sovrapponibile alla possibilità di sopravvivenza degli enti autorizzati più piccoli. Vediamo di capire il perché.

Che l’ente autorizzato debba essere presente in ogni Regione, dove risiedono coppie che ad esso si sono affidate, è quasi intuitivo. Non è infatti possibile garantire né un’adeguata assistenza alle coppie, né una proficua collaborazione con i servizi sociali quando la sede di riferimento dell’ente autorizzato è al di fuori del territorio regionale. Quando ciò accade – e con la normativa esistente è purtroppo la norma – si traduce in un trasferimento di costi dall’ente alla coppia, poiché sarà ovviamente quest’ultima a sostenere trasferte più o meno costose da casa propria alla sede dell’ente, e in un’assenza di dialogo e quindi di collaborazione con i servizi sociali pubblici che hanno in carico la coppia.

Che gli enti autorizzati più piccoli siano invece economicamente non sostenibili, è questione più ampia. Già oggi esistono criteri per definire il “buon ente” e consistono in tutti quegli standard che da un lato assicurano un’assistenza professionalmente valida alle coppie e dall’altro evitano di scaricare sulle coppie medesime le inefficienze dell’ente, ad esempio allungando i tempi di attesa o, come nel caso sollevato dal nostro lettore, costringendo le coppie a veri e propri fenomeni di “emigrazione a fini adottivi”.

Questi standard hanno però per l’ente autorizzato inevitabili costi che:
– o sono neutralizzati dalle economie di scala che solo enti medio-grandi possono conseguire;
– o finiscono per essere scaricati sulla coppia attraverso prezzi più alti del giusto, per lo svolgimento delle pratiche adottive.

Gli enti piccoli, insomma, possono rispondere ai requisiti del “buon ente” – e tra questi vi è anche, ma non solo, la vicinanza fisica alla coppia – solo praticando costi più alti che coprano le loro inefficienze. Affrontare la questione della definizone del “buon ente” è allora operazione senz’altro possibile, ma che, altrettanto probabilmente, ci metterebbe di fronte a scelte difficili, come la chiusura degli enti che meno hanno capacità di rendersi sostenibili. Ecco, forse, perché ancora oggi c’è quella impenetrabile giungla di cui il lettore giustamente si lamenta.

Antonio Crinò. Direttore Generale di Ai.Bi. Associazione Amici dei Bambini